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Verso il Meeting. Valdeci Ferreira: «Prigioni senza sbarre per liberare l'uomo»

Lucia Capuzzi giovedì 3 agosto 2017

Il centro Apac di Itauna, in Brasile, è una prigione senza guardie e senza armi (Michelle Ferng)

“Qui entra l’uomo, il delitto resta fuori”. L’azzurromare della frase – attribuita al Beccaria spagnolo, Manuel Montesinos y Molina – balza fuori dal bianco panna del muro su cui è scritta. Sotto si spalancano i cancelli dei diversi padiglioni. A chiuderli, come in qualunque altro carcere del Brasile, sono pesanti lucchetti. Le chiavi, però, sono nelle mani del detenuto incaricato di tale compito. Itaúna, nel Minas Gerais, è una prigione “particolare”. Tanto da non avere agenti armati di guardia. Né celle stracolme, stipate quattro, cinque volte la capienza massima. Né gruppi di autodifesa dalle violenze della polizia. O gang criminali che impongono il loro “ordine” feroce ai sudditi-reclusi. Insomma, niente di quanto drammaticamente caratterizza i 1.436 penitenziari brasiliani. Luoghi di tortura e abusi sistematici. In cui la brutalità diffusa alimenta la cicliche rivolte che, solo nel primo mese di quest’anno, hanno ucciso 121 persone. Uomini, in genere giovani e giovanissimi, in maggioranza neri e poveri. Proprio come gli “abitanti” del Centro Apac di Itaúna. «Recuperandi », sottolinea Valdeci Antonio Ferreira, presidente della Fraternità brasiliana delle associazioni di assistenza e protezione ai condannati. Le Apac, appunto. Sono trascorsi 31 anni da quando questo laico comboniano ha creato – con l’aiuto delle Chiese cattolica e protestanti – la struttura di Itaúna, sulla base dell’esperienza vissuta nella prigione di São José do Campos, al fianco di Mario Ottoboni, il creatore del “metodo Apac”. Quello che Valdeci illustrerà il 24 agosto al Meeting di Rimini e che, dal Brasile – anche grazie al sostegno della Ong Avsi – fa scuola per il resto dell’America Latina e dell’Europa, Italia inclusa.

Come definirebbe le Apac e in che cosa consiste il loro metodo?

«Le Apac sono associazioni riunite in una Federazione: la Fraternità che ora dirigo. Esistono 39 Apac nel Minas Gerais e 10 progetti pilota in altri Stati. Ogni associazione persegue, in autonomia, quattro obiettivi: recuperare i reclusi, proteggere la società, soccorrere le vittime, promuovere la giustizia riparativa. Per raggiungerli, si avvale di un metodo, articolato in dodici punti, basati su tre fondamenti. Disciplina, fiducia e amore sono i bracci del treppiede su cui poggia l’impalcatura Apac. I recuperandi, per essere ammessi nella struttura, si impegnano a seguire un piano che prevede ritmi intensi di studio e lavoro. Tali attività si svolgono in un clima di fiducia reciproca con il personale – disarmato – del centro, i volontari e gli altri reclusi. L’amore è il perno intorno a cui ruota il metodo. Il recupero avviene quando si riesce a parlare al cuore dell’altro».

Esistono detenuti irrecuperabili?

«No. Se non ne fossi certo non farei ciò che faccio. E non lo dico sulla base di una convinzione teorica. Lo sperimento nel quotidiano».

Ma le sarà capitato che, a volte, il metodo fallisca…

«Non è il metodo a fallire. Si può sbagliare nell’applicarlo. Gli operatori, io per primo, siamo umani e fallibili, pieni di fragilità come chiunque. Per questo, a volte, con il nostro lavoro, non riusciamo a raggiungere le zone d’ombra che resistono nel profondo del cuore dei recuperandi. Quando accade, dobbiamo imparare ad accettare la nostra debolezza. E perseverare».

Ci sono delle figure a cui si ispira nel suo lavoro?

«Ce ne sono molte. A cominciare da san Daniele Comboni. Egli scelse di lavorare con gli ultimi del suo tempo: gli africani. I carcerati sono gli ultimi del nostro. Spesso, non vengono nemmeno considerati persone ma “rifiuti” indesiderati da seppellire quanto più lontano possibile dal resto della società. Scartati, direbbe papa Francesco, altra preziosa fonte di ispirazione. Il suo: “Perché voi e non io?”, rivolto ai detenuti, mi conferma quanto ho imparato da questi ultimi. Cioè che tutti sbagliamo. Ma che siamo più dei nostri errori. Comboni diceva anche che deve essere l’africano ad aiutare l’altro africano. E il metodo Apac prevede che sia il recuperando ad aiutare l’altro recuperando. La coincidenza è evidente. Riferimenti spirituali importanti sono, inoltre, Maria, san Giovanni Bosco e san Francesco. E la riflessione della Chiesa brasiliana nel post-Concilio, con la sua evangelica opzione per i più emarginati. Una scelta che anche io ho fatto, come mi ricorda l’anello di tucum, una palma scura amazzonica, che porto sulla mano sinistra e che da noi è considerato il simbolo di tale impegno».

Come ha cominciato a lavorare nelle carceri? «Avevo 21 anni ed ero appena arrivato a Itaúna. Lavoravo come metalmeccanico e frequentavo la parrocchia, in cui molti erano impegnati nella pastorale carceraria. Ho voluto provare anche io. Quando sono entrato nella prigione pubblica di Itaúna, però, mi sono sentito male: la sporcizia, il sovraffollamento, la tensione palpabile. Ho deciso di lasciar perdere. All’epoca, avevo l’abitudine di aprire la Bibbia a caso e meditare su un versetto. Per tre volte, mi è capitato un brano che aveva a che fare con le carceri. L’ultima, in particolare, mi sono imbattuto nel famoso passo del “giudizio universale” di Matteo e nella frase: “Ero in prigione e non sei venuto a visitarmi…”. Ho capito che non potevo sfuggire. Così ho ricominciato a frequentare la prigione locale. In seguito, ho incontrato per caso Mario Ottoboni e sono andato a lavorare con lui a São José do Campos».

Il metodo Apac può essere ”esportato”?

«Certo e lo stiamo già facendo. In tal senso, è fondamentale la collaborazione con Avsi, iniziata nel 2009. Grazie a quattro finanziamenti ottenuti dall’Ong dall’Unione Europea, si è proceduto a diffondere il metodo in Brasile, in America Latina e nel mondo. In tal senso, è cruciale la creazione di un centro studi internazionale sulle Apac, in cui esperti di tutto il mondo potranno venire a Itaúna a studiare, toccando con mano, il sistema. Siamo agli inizi e Avsi ha promosso una raccolta fondi in Italia per contribuire alla sua realizzazione. La Ong, inoltre, ha appena ricevuto un finanziamento Ue per aiutarci a promuovere le Apac in Colombia, Cile e Costa Rica».

Al di là delle evidenti ragioni etiche, che cosa “ci guadagna” la società a spendersi e a spendere per il recupero i detenuti?

«Tanto. Basta pensare che il costo per carcerato nelle Apac è un terzo della media nelle strutture tradizionali. E la recidiva è del 30 per cento, contro l’80 del resto dei penitenziari. Il che significa che ogni detenuto recuperato è un bandito in meno per strada. La politica, al di là della retorica, dovrebbe rifletterci».