Agorà

Il documentario. Le immagini del dolore del Vajont arrivano al cinema

Lucia Bellaspiga mercoledì 9 ottobre 2019

Longarone dopo il disastro, dal docufilm “Vajont per non dimenticare”

Il bianco e nero rende, se possibile, ancora più spaventose le immagini sul grande schermo. Sembra la fine del mondo e per migliaia di persone lo è. Il diluvio universale si è appena abbattuto su Longarone, ridente cittadina nella valle del Piave e sulle sue frazioni, polverizzando in pochi secondi tutto ciò che lì esisteva, comprese duemila vite, e i primi a filmare quell’allucinazione sono i vigili del fuoco, allucinati loro stessi mentre si aggirano nella landa lunare che resta laddove poco prima ferveva ignara la vita.

È la tragedia del Vajont, il più grande disastro mai avvenuto in Europa, uno dei misfatti più incredibili nella storia d’Italia: è qui che l’azienda elettrica Sade costruì la diga ad arco più grande del mondo, ancorandola a un monte che si chiamava Toc, che in dialetto significa marcio. Ed è qui che il 9 ottobre 1963, oggi 56 anni fa, il Toc si vendicò annientando l’intera innocente popolazione.

«Per questo proprio oggi per la prima volta arriva nei cinema italiani un documentario che fa conoscere il disastro del Vajont al grande pubblico e soprattutto alle nuove generazioni attraverso uno straordinario materiale di repertorio filmato, in gran parte inedito», spiega Alessandro Centenaro, il produttore per Venicefilm (lo stesso di Red Land - Rosso Istria, non nuovo a coraggiose operazioni di ricostruzione storica). «Abbiamo ritrovato i video girati dai vigili del fuoco immediatamente dopo la strage, la notte stessa alla luce livida delle torce e nella desolazione del giorno seguente, quando al sorgere del sole ci si rese conto davvero che sulla terra era precipitato l’inferno».

Vajont, per non dimenticare per oltre due ore fa scorrere immagini crude finora rimaste sepolte nei sotterranei dei Palazzi romani: superstiti che si aggirano come fantasmi su un suolo identico a quello lunare nel punto in cui fino al 9 ottobre alle 22.39 c’erano la loro casa, la loro famiglia; cadaveri che galleggiano nel lago creato dalla frana, incagliati tra tronchi, macerie e oggetti di vita quotidiana; soccorritori che tirano in barca i corpi nudi con lacci passati attorno al collo e li allineano sulla riva; sopravvissuti che cercano i loro cari tra mucchi di salme, il riconoscimento reso difficile dallo stato dei corpi; ruspe che scavano fosse comuni in cui calare al più presto file innumerevoli di bare. Sui coperchi di ciascuna è inchiodata la foto della persona che vi è chiusa (bambini, donne, ragazzi, anziani), l’espressione congelata nel terrore e un numero appeso al collo...

Il tutto inframmezzato dalle testimonianze, anche queste inedite, di chi allora era ragazzo e ancora oggi vive di incubi. La gente era in casa, molti già a letto, altri al bar a vedere alla tivù la finale di Coppa campioni. Di colpo un vento innaturale e sotto, crescente, un rombo mai sentito, non descrivibile. «La nonna ha urlato: è la fine del mondo, scappa, scappa», racconta Gervasia Mazzucco, allora bambina. «Fuggivo, la terra tremava sotto i piedi, ti entrava nel corpo fino a farti scoppiare la testa», ricorda Giuseppe Vazza.

L’impatto ebbe la potenza di due volte la atomica di Hiroshima. «Il vento, prima ancora dell’acqua, aveva spogliato le persone», dice il vigile del fuoco Giulio Erinacea, «li trovavamo tutti nudi. Ho visto una culla con un piccino nudo, sembrava Gesù Bambino, l’ho preso per un braccetto e una gambetta e l’ho passato fuori. Lì accanto c’era sua madre, sposetta giovane».

Dosolina D’Incà girava «in tondo a imbuto, speravo solo che finisse in fretta». Arnaldo Olivier: «Là sotto mi è arrivata una trave, o un detrito, e invece era la mamma». Renzo Bristot ansima mentre ricorda: «Finito tutto, nel buio assoluto qualcuno doveva andare a capire cosa fosse successo, andai io che avevo 18 anni. C’era una signora con il ventre sfondato da una trave, e fuori il feto. Io ho avuto una paura tremenda». Angelo Baraldo, ex capitano del 6° Reggimento Alpini: «Dopo i primi giorni i soldati non volevano più venire, vomitavano, non mangiavano». Qualcuno si tolse la vita, molti dovettero curarsi.

File di sopravvissuti con la valigia in mano portano via briciole di vita. Nessun voyeurismo, nessun gusto dell’orrido, anzi la giusta presa di coscienza di ciò che è accaduto, in tempi così recenti da poter ancora intervistare chi c’era, ma anche in un passato talmente scomodo da essere stato sepolto e rischiare l’oblio.

La sera di oggi 56 anni fa 270 milioni di metri cubi di terra del monte Toc franarono nell’invaso della mostruosa diga, vero miracolo di arditezza architettonica, scaraventando a cento all’ora 50 milioni di litri d’acqua sui paesi sottostanti. I giornali parlarono di fatalità, ma fatalità non era, tutto era stato ampiamente previsto ma nessuno fermò i lavori. Ancora immagini inedite raccontano la costruzione del gigante, mentre venivano messi a tacere i segnali premonitori del disastro.

Se i video dell’epoca mettono in scena il lungo processo, le indagini, le deposizioni degli indagati, è implacabile la nuova testimonianza del giudice istruttore Mario Fabbri, scomparso pochi mesi fa: «Tentarono di addomesticarmi – svela il magistrato –, mi si chiese di non occuparmene e di lasciarlo ad altro giudice. La mia risposta fu molto semplice: sono stato nominato io, io mi faccio il Vajont. I fatti si sono dimostrati diversi da ciò che accampavano i giornali, cioè che fosse stata una fatalità, così del Vajont si preferì non parlare più».

Il processo fu poi spostato all’Aquila, ma i superstiti, in un’Italia povera appena uscita dalla guerra, resi ancora più poveri dalla loro ecatombe personale, «con gravi sacrifici andavamo fino all’Aquila per seguire le udienze, volevamo giustizia, non vendetta», raccontano i parenti delle vittime.

Lo spettatore soffre insieme a loro: nelle due ore di film ha imparato a conoscerli, di ognuno di loro sa ormai dov’erano alle 22.39 di quel maledetto 9 ottobre, per questo è incredulo quando in primo grado sente giudicare che 'è esclusa l’aggravante della previsione'. L’appello riconoscerà la 'responsabilità umana di non aver previsto colpevolmente la frana' ma le pene saranno risibili. La Cassazione nel 1971 le ridurrà ulteriormente: "Il comportamento degli imputati è in linea con la civiltà industriale, è la conseguenza del progresso, che è sinonimo di audacia".

A questo serve Vajont, per non dimenticare. Perché se no non ci si crederebbe.