Agorà

La mostra. Parigi racconta l'utopia negata dell'arte sovietica

Maurizio Cecchetti venerdì 5 aprile 2019

Aleksandr Deineka, "Sul Don. Pausa per il pranzo" (1935)

È all’insegna di una utopia naufragata, fallita in senso proprio, ma che resta in ipotesi, la mostra Rouge. Arte et utopie au pays des Soviets aperta da poco al Gran Palais. Oggi, mentre il mondo è schiacciato da una forza che sembra irresistibile, quella che si esprime nell’incontro-scontro di produzione e consumo, secondo il più sfrenato capitalismo, ecco, che in preda alla grande convulsione economica che ha ingoiato il primato della politica, molti pensano al comunismo come a una possibilità attuale.

Il filosofo Alain Badiou lo disse già una dozzina d’anni fa coniando l’espressione “ipotesi comunista” che aspetta ancora di essere reimpiegata nel nostro tempo. Eppure il comunismo ne ha fatto di male e ha fatto morire o ha, nel suo apparato, ucciso milioni di russi (e non solo), che pur sensibili a quell’ipotesi, si opposero alla sua realizzazione pratica con lo stalinismo, e imponendo il giogo sovietico ai paesi satelliti.

In tempi non sospetti, cioè già prima di Badiou, Riccardo De Benedetti nel 2003 aveva dedicato alla questione il saggio La fenice di Marx che andrebbe riletto oggi, perché anticipava il tentativo maldestro di separare i fatti dalle opinioni, i misfatti del totalitarismo pratico dagli ideali socialisti del comunismo originario. Introducendo il catalogo della mostra, Nicolas Liucci-Goutnikov riassume alcune verità: la rivoluzione generò uno Stato. Ma fu uno stato totalitario, che poggiava su una «violenza poliziesca estrema e sanguinosa» corrompendo per molto tempo la bellezza contenuta nella parola “comunismo”.

Come aveva capito in fretta Walter Benjamin, l’arte politicizzata diventa uno strumento di propaganda del potere. Ed è proprio questa la trappola in cui cadono gli artisti russi dell’avanguardia: dare volto all’utopia della grande trasformazione politica e antropologica, radicalizzando il rapporto con la modernità e rifiutando «l’autonomia tradizionale dell’opera d’arte». Un’autonomia fondata sul fatto che, come aveva scritto Croce e come ribadì Gombrich, nell’arte non esiste un vero progresso e forse nemmeno una evoluzione (perché l’arte, a differenza della natura, fa salti e scarti che si legano alla libertà creativa del-l’artista, e non tende a un avanzamento, o, come dicevano a quei tempi, al «balzo in avanti della tigre»); un altro grande storico dell’arte del secolo scorso, Henri Focillon, rifiutava il principio di evoluzione dell’arte, preferendogli quello di sviluppo e parlava di “famiglie” artistiche. L’ideologia si sposa male con l’arte. E i risultati si vedono anche oggi in tanta arte concettualizzata.

L’uomo nuovo, l’homo sovieticus, mise i piedi nelle sabbie mobili della tabula rasa. L’avanguardia era palingenesi, costruzione di un inedito modo di vivere, voleva fondere – non meno velleitaria e forse consanguinea del simbolismo – arte e vita. Duchamp proponeva di usare un Rembrandt come asse da stiro, e Giacometti disse che in caso d’incendio fra un gatto e un Rembrandt avrebbe salvato il gatto.

L’arte è inferiore alla vita e, al tempo stesso, è per la vita un faro, un legno a cui attaccarsi da naufraghi nell’oceano. L’arte mostra la bellezza ma la vita la rende attuale e sempre diversa. I russi dicevano: le strade devono essere «una festa dell’arte destinata a tutti». E Vladimir Tatlin, del quale è esposto il modello della celebre spirale, aggiungeva di voler «far scendere l’arte dal suo piedistallo» usando materiali industriali estranei alla tradizione artistica. Nel 1923 Rodcenko dipinge un quadrato rosso (splendido anche il tavolo per giocare a scacchi rosso e nero del 1925), Malevic già fra il 1915 e il 1918 aveva realizzato i suoi quadrati neri e bianchi, che rientrano nella mistica sacra, passando prima dalla cruna dell’arte figurativa e perdendo, giorno dopo giorno, l’apparenza realistica per diventare astratti. Ma è questo il primo sintomo del conflitto fra arte e politica che alla lunga sarà causa del divorzio che porterà molti artisti dell’avanguardia a cadere in disgrazia o nella disperazione; vedi Majakovskij, il “poeta della rivoluzione”, che nel 1918 proclamava: «Le strade sono i nostri pennelli, le piazze le nostre palette»; e poi, cadute le speranze, si suicidò.

Uno dei luoghi dove maggiormente si realizza questo contrasto è, in effetti, il teatro. L’altro è il cinema, arte di propaganda per eccellenza, e luogo di alfabetizzazione ideologica che non disdegna Hollywood, come Volga, Volga di Aleksandrov (1938), film preferito, a quanto pare, da Stalin. Questa attenzione per il cinema nei regimi totalitari è confermata, per esempio da un discorso del gerarca nazista Goebbels, che, fresco di nomina a ministro della Propaganda del Terzo Reich, invitava nel 1933 i cineasti tedeschi a copiare il linguaggio della Corazzata Potëmkin e il cinema fascista italiano.

L’avanguardia confligge con le strategie della comunicazione che servono al nuovo Stato per consolidarsi. Gli artisti vogliono incarnare nelle loro opere la rivoluzione, i politici, sempre più censori e normalizzatori, vogliono assoggettare la cultura ai loro interessi. C’è poi molta differenza fra le figure atletiche di giovani donne e uomini simbolo della razza pura tedesca esaltate dalla fotografia e dal cinema di Leni Riefenstahl e i ragazzi e ragazze sovietici che, come spartani, corrono in piena luce negli spazi naturali, dipinti dal sovietico Aleksandr Deineka?

Sgombriamo subito il campo da pregiudizi ormai superati: l’arte sotto i regimi totalitari ebbe spesso picchi altissimi, tanto in Italia quanto in Russia; l’avanguardia e il realismo socialista dei sovietici sono due facce di una stessa medaglia (così in Italia i razionalisti e i novecentisti). Una condizione quella dell’arte di propaganda che, secondo Clement Greenberg, sfiorava il kitsch – ne è esemplare manifestazione la varietà surreale delle stazioni della metro di Mosca –. Come osserva Liucci-Goutnikov, così lo Stato risucchia l’arte, in alcuni casi la spegne e in altri la sfrutta. Sicuramente dopo il 1929, quando prende il potere Stalin. Pochi, credo, non guarderanno con lo stesso interesse sia le opere di Malevic, Melnikov, Ejzenštejn, Mejerchol’d, El Lissitzky, la strepitosa grafica e i fotomontaggi di Gustav Klucis e di Rodcenko, sia quelle “figurative” di Georgi Rublev, Primenov, Chadr, Koustodiev... La qualità pittorica c’è anche qui, ma diversissima è la loro sostanza. Da una parte la trasformazione, dall’altra la statuizzazione (ciò la conservazione dello statu quo). Più si avvicina la seconda guerra mondiale più Stalin si pone in competizione artistica col nazismo e il fascismo. Il clou sarà l’Expo internazionale del 1937 a Parigi dove svettano in cima alle torri dei due padiglioni l’aquila nazista e le statue dei kolchoziani di Muchina.

All’indomani della rivoluzione d’Ottobre il "patrimonio culturale" ereditato è visto come espressione dell’arte borghese. Accade in Russia ciò che poi avvenne nel 1979 con la rivoluzione degli ayatollah in Iran: l’arte occidentale accumulata dallo scià Reza Pahlavi venne nascosta, segregata in magazzini museali; allo stesso modo, quella dell’epoca zarista non venne distrutta (come avrebbe voluto Malevic), ma reclusa in musei e indicata come estranea al socialismo.

L’arte doveva occupare la scena pubblica, veicolare il potere. Boris Groys afferma nel catalogo che «il realismo socialista appartiene così alla modernità perché ha praticato una demusealizzazione dell’arte. Gli affreschi, i mosaici e i monumenti nello spazio pubblico erano più importanti delle opere d’arte musealizzate».

Se il costruttivismo esprimeva l’ideale del mondo nuovo, senza essere tecnocratico né solo politico, Jacques Rancière conclude che gli artisti russi all’epoca erano «marxisti migliori» dei politici che governavano. Gli ostacoli venivano dal partito che considerava le loro opere troppo utopiche: il grado zero non era visto come ostile al passato ma come un ostacolo alla nuova società socialista. Il loro nemico più strenuo fu Georg Lukács, che tacciò di irrazionalità l’espressionismo. E così, conclude Rancière, gli artisti più che costruttori diventavano illustratori. Prefiguratori del futuro felice di uomini e donne emancipate, a cui storicamente mancò però l’essenziale: la felicità e la libertà.

Parigi, Grand Palais
Rouge
Fino al 1° luglio