Agorà

Il romanzo. Uno spazzino a Friburgo. L’umile mistica di Michel Simonet

Alessandro Zaccuri venerdì 9 giugno 2023

Ogni tanto, mentre gira con il suo carretto per le vie di Friburgo, Michel Simonet incontra qualche ammiratore in vena di esagerazione. «Ma è vero che eri un ingegnere prima di spazzare la strada?», gli chiedono. Oppure: «Ma tu eri un avvocato, prima? Giusto?». Più che con filosofia, l’interessato la prende con un pizzico di ironia spirituale: «Il Vangelo dice il vero – annota –. Chiunque si abbassa sarà innalzato. E persino sovra-innalzato». Né avvocato né ingegnere, per diventare netturbino Michelet ha comunque rinunciato a un posto da impiegato. «Non sono finito a fare lo stradino, ho cominciato», rivendica dalle pagine di Lo spazzino e la rosa, singolare e affascinante libro di esordio di uno scrittore orgogliosamente anomalo (AnimaMundi, pagine 160, euro 15,00).

Nato a Zurigo nel 1962, Simonet ha studiato teologia per un paio d’anni, dopo di che non ha mai smesso di praticarla, come dimostrano le riflessioni dedicate alla terminologia greca adoperata da Paolo per riferirsi alla «spazzatura». Simonet è padre di una famiglia numerosa (la moglie avrebbe voluto quattro figli, lui si sarebbe accontentato di tre, alla fine si sono accordati per sette) e spiega di aver preso gli appunti per il suo libro servendosi di un vecchio cellulare passatogli da una delle ragazze di casa. A Lo spazzino e la rosa – uscito in francese nel 2015 e adesso felicemente tradotto da Anna D’Elia per AnimaMundi – è seguito nel 2021 Un couple et sept couffins, nel quale Simonet riprende ed estende l’intuizione di un legame intimo, irrinunciabile fino alla rima, tra «letterario» e «proletario».

Le sue parole hanno la ponderata leggerezza di un mistico della quotidianità come Christian Bobin. Sono un’esaltazione del minimo e del ricorrente, sono la celebrazione di uno sguardo grato e incantato, capace di riconoscere «la grazia del momento» nel mezzo dei rifiuti che copiosamente (e a volte disgustosamente) si depositano nei cestini svuotati ogni giorno con pazienza. Gli aneddoti sono molto numerosi, come ci è giusto aspettarsi da un racconto nato letteralmente “sulla strada”, ma a sostenerli è sempre la ricerca della profondità nella semplicità. Mentre riconosce nel proprio lavoro gli estremi della condizione monastica, Simonet dichiara di professare la cosiddetta «fede del carbonaio», e cioè l’adesione al Vangelo nella sua forma più elementare e tenace: «Sono un cristiano dell’aria aperta – dice di sé –, parrocchiano della strada, e cattolico per rivendicazione, sacrestia e leggio. Che nutre una certa simpatia per tutto ciò che sostiene l’amore concreto, universale e incondizionato per il prossimo».

Da questa attitudine alla contemplazione («Non sono mai le meraviglie a mancare, ma la capacità di meravigliarsi attraverso tutti i sensi») discende anche la naturale propensione all’umorismo che scandisce il resoconto di Lo spazzino e la rosa. Anche quando scherza, Simonet fa comunque sul serio. La sua avversione per il rumoroso e vorace macchinario del quale deve servirsi per pulire i marciapiedi lo porta, per esempio, a vagheggiare una dispensa vescovile in tempo di Quaresima, giustificata dal fatto che l’aggeggio porta il peccaminoso nome di Glutton, “ghiottone”. Ai marchingegni lo scrittore continua a preferire il suo carretto, sul quale tiene d’abitudine una rosa con tanto di apposita ampolla d’acqua che ne impedisca l’appassimento. Dono quotidiano di un fioraio, la rosa è l’emblema del valore «immateriale» della pulizia, di per sé invisibile – si osserva in uno dei passaggi più rivelatori – in quanto risultato dell’assenza di sporco.

C’è molta concretezza nelle descrizioni di Simonet, che condivide con il lettore più di un trucco del mestiere, e nello stesso c’è molta poesia. Anzi, ci sono molti inserti in versi, nei quali l’autore si abbandona al suo gusto per le assonanze e le libere associazioni verbali. Benché si presenti sotto la livrea dell’umiltà, Lo spazzino e la rosa è infatti un testo colto ed elegante, cesellato da un intenditore che colleziona i classici della Pléiade grazie alle monete trovate per strada e che non nasconde la sua ammirazione per un grande scrittore come Jacques Chessex, finora solo sfiorato dal pubblico italiano.