Agorà

Milano. Un Requiem di Verdi intimo per il Covid-19

Pierachille Dolfini domenica 6 settembre 2020

Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel Duomo di Milano in occasione della Messa da Requiem di Verdi in ricordo delle vittime del Coronavirus Covid-19

«È stato un viaggio nel dolore che ha riaperto le ferite di questi mesi. Ma è stato anche un immergersi in una misericordia che ci ha fatto intravedere una speranza». Riccardo Chailly si toglie il frac nel gazebo montato nell’abside del Duomo di Milano, sotto le vetrate, il suo camerino per una sera. Gli applausi (meritatissimi, ma forse avrebbero potuto anche non esserci al termine di una preghiera collettiva così intensa) sono durati dieci minuti e ora sono spenti. Nessuno intorno. Occorre silenzio per interiorizzare. Attorno al collo una spugna per asciugare il sudore, perché la fatica è stata anche fisica. La fatica di dirigere in cattedrale la Messa da Requiem di Giuseppe Verdi con gli artisti del Teatro alla Scala in memoria delle vittime della pandemia di coronavirus alla presenza del Capo dello Stato Sergio Mattarella e dell’arcivescovo di Milano, monsignor Mario Delpini.

Fatica fisica per tenere insieme in un’unica voce orchestrali, coristi e solisti distanziati attorno all’altare (ma gli archi indossano ugualmente la mascherina anche mentre suonano). Fatica dell’anima perché il Requiem che Verdi scrisse (e diresse in San Marco a Milano) nel 1874 per ricordare l’amico Alessandro Manzoni è un viaggio spirituale dentro noi stessi che (inevitabilmente) ogni volta ci trasforma. Il dolore che grida la sua rabbia, lo smarrimento, la paura della morte che sembra prevalere e poi l’accorato Libera me raccontano i dubbi dell’uomo, ma anche il suo affidarsi nel momento del passaggio quando l’invocazione è quella del Fac eas, Domine, de morte transire ad vitam come dicono le parole della liturgia funebre tratte dal messale romano che Verdi ha musicato aggiungendoci il Libera me, un ulteriore punto di domanda sulla vita eterna, forse una speranza. Questa volta il Requiem di Chailly suona diverso da tutte le altre volte (il direttore dal 2014 lo ha affrontato quattro volte alla Scala dopo averlo proposto in ogni stagione della sua direzione musicale dell’Orchestra Verdi), intimo e meditativo, e si fa preghiera. Una preghiera commossa per le vittime del Covid, certo, ma anche per chi resta, per chi cerca una consolazione, una ragione per continuare a vivere. Una pagina che, riletta così, trova così nella cornice del Duomo la sua collocazione ideale, in un’eco che corre tra le navate avvolgendo di sacro chi ascolta, seicento persone, istituzioni, cittadini comuni, medici, infermieri, volontari, eroi di tutti i giorni che durante l’emergenza sono stati in prima linea, facendo il loro lavoro e mettendoci la marcia in più della solidarietà.

E per una volta non conta l’esito artistico – che, comunque, è notevole, perché la lettura di Chailly mette in luce tutta la complessità della scrittura verdiana, la sbalza nelle voci di Krassimira Stoyanova, Elina Garanca, Francesco Meli e René Pape e la riveste di una pietà e di un abbandono disarmanti. Conta il significato, il valore simbolico di una ripartenza attraverso la musica di Verdi che, dopo essere risuonata venerdì in Duomo a Milano, Chailly e il Teatro alla Scala portano domani in Santa Maria Maggiore a Bergamo e mercoledì nel Duomo di Brescia.