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Festival di Venezia. Cinema, un "Padrenostro" per far pace con se stessi

Alessandra De Luca, Venezia sabato 5 settembre 2020

Una scena del film "Padrenostro" di Claudio Noce

Venezia Una lettera d’amore a suo padre, per fare i conti con una ferita ancora aperta, con il rimosso, con la paura. Primo film italiano in competizione alla 77ª Mostra del Cinema di Venezia, Padrenostro di Claudio Noce rievoca un momento drammatico dell’infanzia del regista, quando nel 1976 a Roma suo padre, il vicequestore Alfonso Noce, subì un attentato da parte dei Nap (Nuclei Armati Proletari), in cui uno dei terroristi restò ucciso. Da quel momento un senso di smarrimento e vulnerabilità segnarono drammaticamente tutta la sua famiglia.

Una scena del film "Padrenostro" di Claudio Noce - Ufficio stampa del Festival del cinema / Ansa

Nel film, nelle nostre sale dal 24 settembre con Vision, Valerio (Mattia Garaci) ha dieci anni quando suo padre Alfonso rischia di morire per mano dei terroristi. Ma è proprio in quei giorni così tormentati che conosce Christian (Francesco Cheghi), un ragazzino poco più grande di lui, che sembra arrivato dal nulla. Quell’incontro cambierà per sempre la vita di entrambi durante un’estate ricca di scoperte.

Se il punto di vista del film, dove Barbara Ronchi interpreta la madre del protagonista, è dunque quello di un bambino, a dominare la scena è Piefrancesco Favino che nei panni del padre (ma è anche uno dei produttori del film), eroe ferito e non più invincibile, racconta un altro pezzo della storia del nostro Paese. Padrenostro però non è un film sugli anni di piombo in Italia, bensì un romanzo famigliare sul quale si innesta una favola di crescita e formazione che, emancipandosi dal dato reale e dall’autobiografia del regista, mette in campo fantasia e invenzione.

«I miei genitori hanno completamente rimosso l’accaduto – racconta il regista, che ha scritto il film con Enrico Audenino – ma non dò a loro delle colpe perché è stato il loro modo di proteggere noi figli. È stato doloroso ma era giunto il momento di attraversare la paura per vincerla, per scardinare il silenzio. Le parole private sono diventate universali. Ho pensato molto a quale doveva essere il punto di vista per raccontare un fatto per anni cancellato nella mia famiglia e alla fine di un lungo percorso ho capito che doveva essere quello di un bambino che ha assistito all’attentato, mio fratello. Ma in Valerio ci siamo anche io, che ero in casa ma avevo solo due anni, e mia sorella, che era a scuola. I miei genitori non sono a Venezia, ma hanno visto il film e ne sono molto orgogliosi. Mio padre ha difficoltà a esprimere le proprie emozioni, ma a modo suo lo ha fatto. Il film parla della ricerca del padre, da parte di Valerio, ma anche di Christian, che sta “dall’altra parte”. C’era una guerra in quegli anni e noi bambini eravamo li a osservare e ascoltare gli adulti che parlavano di minacce, di liste nere».

«Volevamo raccontare non gli anni Settanta – commenta Favino – ma l’infanzia in quegli anni dando voce alla generazione a cui appartengo, quella dei cinquantenni che è stata messa un po’ da parte perché non ha partecipato a quegli avvenimenti e non ha avuto la possibilità di raccontare come ha vissuto quei momenti. Noi non abbiamo avuto il problema di essere antagonisti di qualcun altro, di essere da una parte o dall’altra perché siamo passati subito agli anni Ottanta. Siamo stati la prima generazione di consumisti e non abbiamo mai partecipato a nulla. Questo però a generato una generazione laica, una cultura, una letteratura, un cinema che non hanno bisogno di mettersi dalla parte del bianco o del nero. Siamo dei silenti educati che si sentono il dovere di chiedere il permesso per ogni cosa, ma io sono stanco di dovermi scusare per essere nato dopo. Quando tre anni e mezzo fa davanti a un caffè Claudio mi ha raccontato la sua storia, ho capito quanto mi riguardasse da vicino. In quel padre che interpreto ci ho visto mio padre e i suoi silenzi, tanto che non ho avuto bisogno di incontrare Alfonso, e in quei luoghi ho ritrovato quelli della mia infanzia».

Per ricostruire minuziosamente la scena che per oltre quarant’anni la sua famiglia ha cercato di dimenticare, quella dell’attentato, il regista come un reporter ha iniziato le sue ricerche alla Biblioteca Nazionale, consultando ancora una volta i quotidiani dell’epoca usciti il giorno dopo l’attacco. «Ma Padrenostro è un film di pacificazione – dice Noce – nato con l’intenzione di raccontare l’abbraccio della generazione di “invisibili” che ha subito quella guerra in modo involontario, cercando di dare voce alla paura di due giovani uomini che, ognuno dalla sua parte, cercano un padre. E volevo che la parola “padre” fosse nel titolo, che rievoca inevitabilmente una preghiera».