Agorà

Testimonianze. Raccontare la guerra negli occhi dei bambini. Come Calvino

Dorella Cianci sabato 25 giugno 2022

Un bambino afgano in un campo profughi di Kabul

“I grandi sono una razza ambigua e traditrice, non hanno quella serietà terribile nei giochi propria dei ragazzi”, scrive Calvino ne I nidi di ragno. E infatti la guerra è di questi assurdi adulti. Che sanno i bambini della guerra? Eppure spesso è sotto i loro occhi, da generazioni. Quando pubblica questo romanzo, Calvino è nel pieno della sua fase neorealista. Nella prefazione, l’autore spiega che quel modo di raccontare nasce dalla voglia di documentare i drammatici fatti accaduti durante la Seconda Guerra Mondiale. Quale la novità? La capacità, da parte dell’autore, di incentrare questa narrazione sul punto di vista di un bambino e di unire, alla barbarie, l’elemento fiabesco dello sguardo dei piccoli, anche quando chiamati involontariamente a esser grandi. Il protagonista è infatti il noto Pin, un bambino, che riesce a sottrarre a un marinaio tedesco una P38 e la nasconde nel luogo dove i ragni fanno il nido. Il romanzo parla di un lui, che deve, suo malgrado, affrontare un contesto tremendo per la sua età, senza una reale consapevolezza di tantissime cose legate alla guerra. Proprio pensando a Pin e partendo da questo grandissimo e autorevole esempio letterario, Marina Castellano ha deciso di scrivere Vorrei vedere i bambini giocare. Storie di un’infermiera dentro la guerra, per l’editore Libreria Pienogiorno e con la bella nota di Cecilia Strada.

Nel 2014, l’autrice racconta di aver fatto una promessa indimenticabile. Si trovava nella Repubblica Centrafricana. Un ragazzino di 14 anni era ricoverato presso il reparto di chirurgia pediatrica e, in quel momento di difficoltà fisica e psicologica, gli piaceva sentirsi raccontare delle storie sulla vita in Italia, fra aneddoti familiari e descrizioni artistiche delle maggiori città, a iniziare dalla grandezza di Roma e dalla sua storia eterna. Il giorno che andò via dall’ospedale, mentre si allontanava con la macchina che lo stava portando lontano, gridò: “Marina, racconta la mia storia, promettimelo”. Ed è da questa promessa che la Castellano inizia il suo racconto nelle guerre, fra i bambini malati o mutilati da mine antiuomo, fra cui uno, dal sorriso memorabile, incontrato nel pronto soccorso di Bangui, che peraltro sognava, da grande, di diventare un bravo medico.

Scrive la Castellano: “Purtroppo è sempre così nelle guerre. Nel 2015 a Kunduz, in Afghanistan, l’ospedale gestito da Medici senza frontiere è stato bombardato, per una notte intera, da aerei americani: sono morti decine di pazienti e di nostri colleghi. Tanti bambini. Cinque anni dopo nello stesso Paese, ma a Kabul, un commando di uomini armati di kalashnikov è entrato nel reparto materno infantile ed è stata una strage di mamme e di bambini”. Cecilia Strada aggiunge: “Mio padre diceva, però, che la morte vince una volta sola, la vita può vincere ogni giorno”. Ed è proprio questo lo spirito che anima tutto il libretto di questa appassionata infermiera lungo le rotte del mondo, fra i bambini, che rincorrono la vita non dimenticando il gioco, che poi, in fondo, è anche il loro modo di decentrare lo sguardo rispetto alla bruttezza.

Questo racconto, scritto come cronaca, ma dal profondo valore pedagogico, è nato quando la guerra in Ucraina ancora non c’era, ma tante erano comunque in corso, in altri continenti, dove i bambini, per anni, sono stati e sono costretti a lasciare le loro case, coi loro giocattoli. Omar oggi è abbastanza grande, ma aveva dieci anni nel 2006, a Musa Qala, una città afghana abitata da tribù Pashtun. Omar giocava col pallone, insieme ai suoi cuginetti vicini di casa. Maschi contro femmine in campo. Da quelle parti le scuole restano aperte anche nei mesi caldi, quando il giorno è più lungo e non è molto pericoloso andarci. In quelle settimane, però, la scuola era chiusa, i combattimenti avevano provocato morti e feriti, ma quei bambini continuavano a giocare felici per strada, provando a non tener conto dell’orrore, che si spargeva intorno e assaporando, con fantasia, la spensieratezza della chiusura delle classi. Sembrava una festa. Sapevano che non lo era, ma sembrava appunto una quasi festa.

Arriva però, a Musa Qala, il giorno del drago volante con la pancia piena e la quasi festa finisce. Guardano così degli aerei volare in cielo, restano attratti, con stupore, da quegli uccelli giganti, che aprono le pance e non fanno cadere regali, ma solo sorprese di morte. In un attimo quel campetto non c’è più e i bambini rimangono a terra. Mentre giungono in ospedale non c’è più Renate. Non chiedono altro. Hanno capito. Poi anche Marian va via. Non si saprà più niente di lei, ma intanto i genitori piangono. Omar continuava con serietà e pazienza le sue cure e un giorno, quando gli chiesero che cosa fosse successo in quel campetto di calcio, disse tutto. Raccontò dei draghi dalle pance piene di odio, senza neanche essersi accorto che tutta quella devastazione proveniva da uno degli aerei della cosiddetta “coalizione di pace internazionale”.

Torna alla mente, ancora una volta, Calvino, così come citato nella conclusione dalla figlia del grande Gino Strada, Cecilia: “Per alleviare le sofferenze occorre cercare qualcosa nell’inferno, che inferno non è, e possibilmente farlo durare”.