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Il Saint Mary'€™s Lacor Hospital di Gulu. UGANDA L'ospedale dove si ritorna fratelli

Antonella Mariani mercoledì 12 novembre 2014
Una storia di uomini e donne che hanno reso possibile l’impossibile; se si vuole condensare la straordinaria avventura del Saint Mary’s Lacor Hospital di Gulu, nel Nord Uganda, forse queste sono le parole giuste. Un cuore pulsante nel corpo dolente dell’Africa equatoriale, che batte dal 1959 e che oggi, per un’incredibile combinazione di generosità, testardaggine, passione per la medicina e soprattutto amore per l’uomo, è diventato da piccolo avamposto missionario a primo ospedale non profit dell’Uganda per numero di persone curate e un centro pilota internazionale per la ricerca, la prevenzione e la cura dell’Aids. Uomini e donne che con tanta sapienza Francesco Bevilacqua e Mariapia Bonanate hanno voluto celebrare in I bambini della notte (il Saggiatore, pp. 236, euro 15), che sarà presentato oggi a Milano alle 18 nella Sala Congressi della Fondazione Cariplo (assieme agli autori interverranno Dominique Corti, Umberto Ambrosoli, Elio Croce, Ferruccio De Bortoli, Mariella Enoc e Cyprian Opira). Alcuni di loro sono già noti e nondimeno le loro vicende affascinano, a partire da Lucille e Piero Corti, i due giovani medici idealisti che dal Canada e dalla Brianza nel 1961 sbarcarono nel Nord Uganda per prendere in carico il piccolo ospedale con 50 letti che il vescovo di Gulu, il comboniano Giovanni Battista Cesana, aveva fondato in piena savana. Non sapevano, i due temerari medici poi diventati marito e moglie e genitori di Dominique, che non se ne sarebbero più andati, che il Saint Mary’s li avrebbe incatenati a sé per sempre. Insieme – i due Corti, i medici e gli infermieri che li avrebbero seguiti, le migliaia di malati che nell’ospedale hanno trovato cure di altissimo livello professionale e umano – hanno attraversato la dittatura e poi il rovescio di Idi Amin Dada (1971-79), la nuova era di Museveni (1986) e la guerra civile con i gruppi ribelli del Nord, primo per ferocia quello del sanguinario Kony. E dalla fine degli anni Ottanta le devastazioni dell’Aids (il 30% dei cittadini ugandesi risultava contagiato dall’Hiv), virus che, contratto mentre era al lavoro in sala operatoria, nel 1996 uccise la stessa Lucille, e poi la fulminea strage della prima epidemia di Ebola (ce ne fu un’altra nel 2007, l’ultimo caso ufficiale risale al 2012), che nel 2000 si portò via il successore designato dei coniugi Corti, il giovane medico ugandese Matthew Lukwiya, che oggi riposa a fianco a Lucille e Piero sotto un grande mango nel cortile del St. Mary’s. È la storia dell’Uganda e delle tragedie del suo popolo, e insieme un paradigma d’Africa, quella che Mariapia Bonanante e Francesco Bevilacqua narrano, attraverso gli occhi di quest’ultimo, che nel 2004, brillante manager 45enne, decise di dare una svolta alla sua vita insoddisfatta iniziando dall’Uganda. I “bambini della notte” che danno il titolo al lungo racconto sono stati il suo primo incontro al St. Mary’s, in quegli anni diventato rifugio ogni notte di una marea umana – dalle 3 alle 15 mila persone – di derelitti in cerca di scampo dalle incursioni dei guerriglieri nei villaggi. Sono loro a cambiare la vita di Francesco, a offrirgli quello sguardo nuovo su di sé e sulla vita che non lo ha più abbandonato. Il libro è costellato di nomi, di storie atroci eppure luminose. Una per tutte: nel reparto di pediatria una notte viene ricoverato Kenneth, 14 anni, con la mano mozzata da un giovanissimo guerrigliero che aveva fatto irruzione nella sua capanna. Nel letto a fianco c’è il coetaneo James, in divisa da ribelle, con la gamba spappolata dai colpi dell’esercito. L’uno riconosce l’altro: la vittima e il carnefice, entrambi straziati nel corpo e nell’anima, si studiano tremando finché non si ritrovano fratelli in quella devastazione che è stata la vita di ciascuno dei due. Ecco: in mezzo alle carneficine, alle malattie, alla morte di migliaia di esseri umani, il St. Mary’s, con i suoi alti cancelli e il cuore di chi ci lavora, è restato un presidio di umanità. Ha curato guerriglieri e soldati governativi, bimbi malnutriti e mamme malate di Aids, ragazzi saltati sulle mine e famiglie travolte dall’Ebola, senza guardare a colpe e ragioni, andando solo al cuore della sofferenza.  E oggi l’avventura continua. Dopo Lucille e Piero, dopo Matthew e il coraggioso Bruno Corrado, medico ed eccellente amministratore, oggi il timone del Lacor, grande e complessa struttura d’eccellenza fatta di reparti di cura per 300mila pazienti all’anno e scuole di specializzazione, officine e dispensari locali, è passato a tre medici africani, così come avevano stabilito gli stessi Corti per il futuro dell’ospedale:  Cyprian Opira, Odong Emintone, Martin Ogwang.   Resta, come una colonna di granito, Elio Croce, fratello laico comboniano, che da un quarto di secolo presta il suo cuore e le sue braccia al Lacor come capo officina, meccanico e falegname e infaticabile riparatore di ogni guasto. Il motto è rimasto lo stesso che aveva coniato Lucille quando l’avventura cominciò: «Le migliori cure, al minor costo». Un’incredibile epopea di amore e speranza, in nome del popolo d’Africa e dell’uomo che soffre.