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Musica e cultura. Da Pino Daniele a Gragnaniello, tutte le voci di Napoli

Luca Miele martedì 13 gennaio 2015
Napol’ è tutt nu suonn canta Pino Daniele in quello che è ormai l’inno dell’intera città. Suonn - sogno - in napoletano mostra una  prossimità con la parola suono. Napoli è non solo una dimensione onirica, un sogno ­– irraggiungibile come tutti i sogni -  ma è anche tutta un suono, una città interamente musicale, una città capace di produrre instancabilmente musica, di essere totalmente impregnata di musica, di riversare se stessa e le sue infinite proiezioni incessantemente nella musica.Una città nera a metà Pino Daniele è stato ed è il crocevia di questo universo musicale. Perché l’autore di Chi tene 'o mare e Viento 'e terra ha saputo iniettare la vitalità ancestrale, inquieta che sale dal ventre incorrotto di Napoli nella raffinatezza del jazz, nella corposità del blues. La melodia dei maestri - Sergio Bruni in testa – in una lingua sapida, fulminante, umorale, volgare nel senso letterale della parola, perché parlata da tutti. Nero a metà, A me m’ piace o blues non sono solo dichiarazioni d’intenti musicali. Sono rivendicazioni identitarie, la rivendicazione di un riscatto. Umano, artistico e civile.
Non è un caso allora che compagno di viaggio di Pino Daniele sia James Senese, il sax più dolorante di tutta Napoli, un vero nero a metà, così come lo era Mario Musella (metà pellerossa, metà napoletano), figlio della guerra e degli incroci razziali che la conclusione della guerra portarono. Senese è come Daniele un punto di incrocio: l’esperienza dei Napoli Centrale, la collaborazione mai interrotta con lo stesso autore di Napul è, il percorso solista, la rilettura della tradizione (testimoniata dall’interpretazione del brano Passione nel film tributo alla canzone napoletana di John Turturro).
“Questa – ha scritto Ermanno Rea – è una città-spugna, capace di apporre il proprio sigillo su ogni importazione, di ridurre alla propria misura chiunque la scelga per casa; questa è una città che inghiotte, metabolizza fingendo di farsi essa stessa straniera via via che integra lo straniero, lo divora. Perciò la mia piazza di oggi non è troppo dissimile da quella di ieri, perfino le voci si rassomigliano, e può accadere anche che il nigeriano gridi al nigeriano – “ma tu che cazzo vvuò?” – con una inflessione di parlata, una voce, come provenisse diretta dalle viscere della città”.

Gli eredi a colpi di dubA partire dalla metà degli anni Novanta, gruppi come gli Almamegretta, i 24 Grana, i 99 Posse hanno insieme rotto e aperto a nuove sonorità  il corpo della tradizione napoletana. La “rivoluzione”  è stata in qualche modo preparata da formazioni storiche degli anni Settanta come La Nuova Compagna di canto popolare , i Musica nova di Eugenio Bennato (ex NCCP poi approdato al progetto Taranta Power), gli E’ zezi, la formazione di Napoli centrale. Il recupero di materiali, spesso sotterranei, della tradizione si sposa la rivendicazioni marcatamente sociali e politiche. In particolare, nella Compagnia di canto popolare questo lavoro di recupero si fonde a una dimensione “teatrale”, nel quale il corpo, da sempre al centro della rappresentazione napoletana (da Pulcinella a Totò), ritrova la sua dimensione espressiva, debordante, carnevalesca. Nella produzione degli Almamegretta è prepotente il richiamo all’identità, a una napoletaneità non più schiacciata su abusati cliché. Il sud è chiamato a una nuova insorgenza (“Sud insist cha resist”), a una non supina accettazione del presente (“Genta mia genta generosa/ non v’arrenit cambiat tutt’ e cos”), a una vitale e disperata affermazione identitaria (“tenimm sangue e anima/ o tenimm verament stu sangh’ e anima”). Il racconto su Napoli – una Napoli violenta e solare, irredenta e generosa – avviene attraverso il racconto di vite marginale come in O bbuon e o malament, nella bellissima e cruda 47 , nella città ripiegata nei suoi vicoli  (“Per rint e vicoli addo non trase o mare”). La ridefinizione identitaria preme su narrazioni consolidate, arriva a rovesciare la storia, come in Figli di Annibale (“Se conosci la tua storia/ sai da dove viene/ il colore del sangue che ti scorre nelle vene”).Dagli Almamegretta si è staccato Raiz per intraprendere una carriera solista tra le più interessanti del panorama musicale napoletano. Ancora il rifiuto di ogni compromesso: ” Arrevuotate arrepigliate chiesta è a vita toja/ tu non t’arrennere”. Il percorso intrapreso da Raiz testimonia un’inquietudine e una ricerca instancabile, un’erranza tra codici, lingue, culture. Raiz non solo si è ricongiunto con gli Almamegretta, ma si accompagna con i baresi Radicanto – gruppi tra i più raffinati della musica italiana- , con il chitarrista Fausto Mesolella, ex Avion Travel.

Anche i 24 Grana – orfani della voce di Francesco di Bella uscito recentemente dal gruppo - partono dalla tradizione per violarla, per spingerla oltre i suoi confini. Come nell’antica O’ cardillo (interpretata tra gli altri anche da Sergio Bruni), Vesuvio (degli e Zezi), o il Canto dello scugnizzo (di Bennato). L’universo sonoro della tradizione è piegato all’impasto acido di reggae e punk. Anche l’amore, tema onnipresente nella tradizione, trova cittadinanza nel repertorio dei 24 Grana come nella bellissima Kevlar: “Quanta speranza s’arape ‘a matina/ quanno ‘a matina s’arape cu te/ quanno nu juorno ‘è colori ne è chino/tanta è ‘a speranza che trovo co’ me” . Più schiacciata su forme di militanza politica è la produzione dei 99 Posse che vivono la loro stagione migliore con l’intreccio di voci di Meg e Luca Zulù Persico. Lucariello, Co’sang,  Clementino, Ciccio Merolla esplorano nuove forme di sonorità privilegiando le ossessive scansioni del rap. A cavallo tra i patrimoni musicali campani e pugliesi, si muove Eugenio Bennato. Sua la Brigante se more, sorta di inno, di appello alla resistenza, attraverso la riscoperta della figura del brigante, emblema di una rivolta fallita e trasfigurata nel presente. In Sponda sud il ricordo di un’Italia minore si sposa ai ritmi della taranta e a incursioni nel mondo sonoro mediorientale e africano. Teresa de Sio in Amén ritrova l’invocazione, il tu dato ai santi, una religiosità abituata  alla convivenza con il sacro e rivissuta ancora una volta in chiave di rivolta: “Oi Maro nun dice Amén”. Lo stesso Tu ritorna in un brano interpretato da La moresca, Oje Maronne fance chiovere. Più vicini a sonorità di stampo americano i Foja e gli 'A67. Enzo Avitabile – a cui Jonathan Demme ha dedicato un film documentario – unisce l’immersione nella tradizione con sonorità tipicamente africane.

La lode del creatoDi Enzo Gragnaniello è il bellissimo canto Stu criato: “E figl/ e figl song è Dio/ e nun se tocca nient e chelle ca e’ stato criato”.