Agorà

Reportage. Turchia plurale. È ancora possibile

Davide Rondoni venerdì 30 settembre 2016
Ci sono molte Turchie in Turchia. Chi si trova da queste parti o prova a leggere le cronache su un Paese oggi crocevia geopolitico fatica a orientarsi. È un paese dove il diritto di voto delle donne è stato introdotto prima che in Italia. Sotto la spinta di Atatürk – militare padre della patria che ha governato fino al 1938 – ha sviluppato enormemente la sua forza e la sua società. La Prima guerra mondiale segnò il declino dell’antico impero ottomano, ma non del suo sogno di potenza mondiale. I Turchi si sentono così. Ci sono però tensioni interne tremende, sia storiche – come quella che ha portato al genocidio degli armeni, argomento tutt’oggi tabù, come si è visto dai recenti attacchi al Papa reo di ricordarsene – sia scontri ancora aperti.  Mentre scrivo giunge la notizia di altri dieci  soldati turchi morti per mano di miliziani del partito curdo (Pkk). Sono qua per un festival, poesia e pace, promosso dal poeta Ataol Behramoglu. L’arte offre un modo obliquo, libero di vedere il mondo. Ci fanno vedere il lato ufficiale, i discorsi delle autorità. Ma i poeti sono segugi e si possono fissare gli occhi delle persone, vedere dentro le case, ascoltare le musiche nei bar, indagare gli occhi nerissimi delle ragazze, cogliere segni seminascosti. A tavola, ad esempio, nei silenzi che scendono quando dici «E cosa ne pensi dell’Iran?». Si fatica a comprendere la base politica del presidente Erdogan. Un puzzle che va da socialisti a imam a filoccidentali. Molti lo votano per la crescita economica e la stabilità. Dopo il fallito golpe visto in mondovisione («una cosa di certo male organizzata» ci dice un tizio, disincantato) sono in carcere più di 200 giornalisti. Anche la notizia della liberazione anticipata dell’assassino di padre Santoro e una strana complicata vicenda di supposizioni riportata da un giornale filogovernativo circa coinvolgimenti del patriarcato ortodosso nel fallito golpe, forniscono altri elementi di inquietudine. In generale, però, qui non sembrano preoccupati. Forse perché mentre scrivo Istanbul, la enorme capitale crocevia di tutte le tensioni, è lontana. Qui siamo a Izmir, l’antica Smirne, città dall’immenso porto. La luce e il mare dominano. La gente è affaccendata, gli sposi novelli si fanno foto dalla vecchia torre sul panorama. Una ragazza ha il vestito rosa shocking ma lo sposo sembra sereno. Molte Turchie in Turchia. Ci sono campagne immense, coltivate a melograni, ulivi, viti. Un paese di oltre 75 milioni di abitanti. E vista la storia tormentosa qui alcuni non si meravigliano che si debba governare con metodi non sempre fini. Del resto, è stato a tutti chiaro che la “rivolta democratica” contro il golpe ha avuto negli appelli dei muezzin il catalizzatore. C’è chi giura che da un lato l’animo islamista di Erdogan è costretto a venire a compromesso, ma dall’altro dopo il golpe certi scrupoli paiono, per così dire, maledettamente alleggeriti. Nei film in tv i bicchieri d’alcol e altre cose “sconvenienti” sono schermate. Eppure le molte Turchia che sono in Turchia cercano di stare insieme. Un ragazzo, battezzato solo un mese fa, ci saluta sui gradini di San Policarpo, la chiesa cattolica del patrono di Smirne-Izmir. Dice che ci sono non poche conversioni come la sua. La convivenza è buona, sorride. Tranquilli sono i locali di una cittadina sul mare a due ore Smirne. Somiglia a una delle tante cittadine della Liguria o del sud della Francia. «Non c’è dubbio», dice il poeta spagnolo Carlos Aganzo godendo di un buona cena e buon vino «con questi siamo cugini, una razza simile». Lui viene da Avila e ammira Juan de la Cruz. Concordano anche la elegante poetessa slovena Barbara Pogacnik e il poeta tunisino Moez Mayed. C’è una “cuginanza” mediterranea che non puoi non avvertire. Qualcosa che passa per un certo gusto della compagnia, del parlare di arte, per un rispetto anche ironico della religione. Considerare queste cose meno importanti di altre è uno degli errori gravi di oggi. I poeti, gli artisti riconoscono tale “quid” di umano che lega le persone in ogni differenza. Di questi tempi si tratta di una risorsa. Ci sono molte Turchie in Turchia come probabilmente molti Mediterranei nel Mediterraneo, ma la possibilità che tale “cuginanza” non vada in frantumi, che tali ricchezze etniche culturali religiose stiano insieme, non appare così lontana. Viene complicata dalla ricerca del dominio. Certo, oggi il Mediterraneo è teatro in rovina di scontri micidiali, con conseguenze inimmaginabili. Alla riva di questi anni si affacciano, chiedendo risarcimento, conflitti passati, conquiste, vecchi conti da regolare. Ma questa tavola di poeti turchi arabi europei è come un piccolo segno che un’altra cosa è possibile. Se la Turchia lascerà crescere questi segni più della smania di potere allora potrà essere un posto importante per il mondo, non un’ombra preoccupante. Ma tra tutti i segni c’è un posto specialissimo. Ci arrivo. Qui l’aria è attonita. Come certe mattine dopo la tempesta. Le lacrime salgono agli occhi. Sono su una collina vicino all’antica Efeso, sopra le rovine romane meravigliose. La indicano così: la casa di Maria. In questa casetta Maria visse gli anni che le restarono dopo la morte di suo figlio. Cosa era il tempo di quella donna, lì, dove la andava a trovare  Giovanni, l’amico a cui Gesù l’affidò come fa ogni figlio che vuol bene da morire alla madre e non vuole lasciarla sola ? Come fu che il suo corpo e il suo cuore ferito divennero cielo? Come erano le ore tra quegli alberi, sulla collina che guarda la pianura e il mondo in lotta? Era come questo, era esattamente questo. Lo stesso. Di noi che abbiamo visto i segni e li custodiamo nel nostro cuore. Lei nella sua piccola casa (cosa faceva, usciva? Guardava il mattino? Raccoglieva un poco d’erbe? Si sentiva smarrita? Come guardava gli amici di suo figlio?), lei era al centro della mandorla misteriosa del tempo. L’aeroporto di Izmir è luminoso, vasto. Gursu nel suo piccolo souvenir- shop capisce che sono cristiano, mi regala l’immagine della Madonna che stavo scegliendo. Me ne mostra un’altra nel portafoglio. Anche in aeroporto arriva il tempo di Efeso. Tra orari di aerei, coincidenze che sembrano togliere il fiato, si vede la donna nella casa sulla collina, lei sa il mistero dei giorni. Le lacrime che mi salgono agli occhi che troppo hanno visto e vedono sono, letteralmente, di addio. A Dio.