Agorà

Intervista. Walter Trout, le cicatrici del blues

Andrea Pedrinelli giovedì 12 novembre 2015
Battle scars, ovvero le cicatrici della battaglia. Sicuramente per un disco è un titolo d’impatto, ideale per il marketing: specie se stiamo parlando dell’album di un signore che nel mondo del blues, nel quale vanta diciotto dischi solisti, quarantadue incisi in tutto compresi quelli con l’immenso John Mayall, e due Award vinti, è definito “ guitar hero »”, eroe della chitarra. Solo che Battle scars per Walter Trout, chitarrista americano classe ’51, non è un’immagine: è un’esperienza reale. A inizio 2014 Trout giaceva nel letto di un ospedale, incapace di riconoscere i suoi bambini. E in quel letto attendeva la fine: càpita, nelle corsie destinate ai malati terminali di cancro. Walter Trout era stato colpito da un tumore al fegato, per lui non c’erano più speranze. Poi l’ostinazione della moglie Marie, 240mila dollari raccolti chiedendoli anche via web alla “famiglia” del blues (colleghi, artisti cosiddetti “rivali”, soprattutto fan), un aeroplano verso un altro ospedale e, il 26 maggio 2014, il trapianto: che ha significato il ritorno alla vita di Walter, e di lì un ritorno alla musica con coscienza molto diversa. Della vacuità di titoli quali “ guitar hero”, della responsabilità delle cose da dire nei dischi, della gioia e del privilegio di essere vivi. «Sono rinato come autore e chitarrista ma soprattutto come uomo, marito, padre. Ho un’altra chance per essere una persona migliore. Sa, sono grato alla vita di questa esperienza: che non poteva non finire in un disco ma non ho voluto ci finisse solo come canto di speranza. No, volevo dire tutto, condividere, iniziare insomma da subito, ora che mi sento come quando cominciai diciassettenne, a essere un uomo che sa di avere fortuna e nuove responsabilità verso gli altri». L’album Battle scars, tredici brani di blues bello e solido, con testi a tratti sconvolgenti, ha anche riportato Trout in tour: dalla Royal Albert Hall di Londra dove da artista “quasi andato” – o Almost gone, come da titolo del primo brano del Cd – ha riabbracciato chi aveva raccolto i soldi per il trapianto, a un tour che, chissà, lo porterà anche da noi. Per ora gira fra Norvegia, Scozia, Olanda, Germania: ovviamente non solo parlando di musica, come quando l’abbiamo incontrato sorridente e ben conscio del senso e della bellezza della vita. Quanto conta la musica per lei, ora? «La musica ha contribuito alla mia uscita dal tunnel. Adesso mi sento un artista migliore perché ho rimodellato il senso di tutto, musica compresa. Ma sa una cosa? Non avrei potuto riuscire a crescere così tanto e così bene in nessun altro modo, forse». Cosa ricorda dei giorni nel reparto dei malati terminali? In Omaha ne canta in modo esplicito… «Sono stato cinque mesi, lì. Ricordo una linea bianca. Poi impressioni, luci, voci e suoni ma soprattutto tanto, tantissimo silenzio. Avevo barlumi di coscienza e cose da comunicare e forti medicinali che mi rendevano incoscien-te. E ogni giorno vedevo gente che moriva, familiari piangere, medici faticare a consolarli. Io dovevo essere il successivo a morire: in Gonna live again me la faccio, la domanda sul perché invece sono sopravvissuto ». E si dà anche la risposta? «A livello spirituale la malattia non mi ha cambiato perché io con Dio ho sempre avuto un rapporto, se mi permette di definirlo così, di amicizia. La musica per me è sempre stato un Suo dono: ecco, ora mi ha dato un altro dono. La domanda successiva è: in che modo posso ripagare? La risposta è la responsabilità diversa che oggi sento di avere, da padre, da marito, ma anche da autore di testi di canzoni». In quei giorni ha rimpianto qualcosa, della sua vita? «Ho rivisto la mia adolescenza, in quei giorni. A qualche rimpianto ho pensato, sì: ma vede, avevo perso la speranza di avere futuro quindi pensavo poco, quando poi ci riuscivo. Però mi ero ripromesso già in ospedale, che avrei cambiato molte gerarchie di valori ne fossi uscito». Cosa sente che le ha insegnato di preciso il tumore? «La luce della vita, la felicità di viverla. L’amore di mia moglie e dei miei figli, il senso delle cose musica compresa. In My ship came in canto di come avevo vissuto male, alla diagnosi, aver dovuto rinviare tour e libro sui miei venticinque anni di carriera. L’avevo sognato tanto, dovevo mancare l’evento. Ora so che non era certo una cosa fondamentale». Con queste canzoni lei cosa vuole trasmettere? «Le ho scritte quasi a completare la terapia: dovevo buttare fuori tutto e condividerlo, per ripartire. Quindi spero che chi ascolta colga quant’è importante dare e avere speranza. Senza la speranza di mia moglie non sarei qui, oggi. Questo è il succo della mia storia: e la prima cosa da testimoniare ». Cosa ha provato sapendo dei soldi raccolti per lei? «Stupore, poi commozione. Quanto amore, dalla gente del blues. E per forza che ora devo fare musica bella e con responsabilità: anche per loro, glielo devo». A chi è dedicato Please take me home, “per favore portami a casa”? «A mia moglie. Mentre stavo letteralmente morendo lei ha fatto ricerche, ha lanciato la raccolta fondi, ha trovato un ospedale per il trapianto, mi ci ha portato. Ed era sempre lì, accanto al mio letto: faceva tutto al computer. In più, vederla vicina mi faceva lottare contro ogni dolore: e ciò mi ha permesso di sopravvivere sino al trapianto». Che scars, “cicatrici”, sente di avere addosso oggi? «Ne ho tante. Mentali, emotive, ovunque sul corpo. Sono segnato completamente, dallo stomaco al cuore. Però sono grato alla vita: ho un’altra chance». Cosa direbbe a un ragazzino che sogna fama, soldi, il titolo di “eroe della chitarra”? «Mah, io non ho mai pensato di esserlo neanche prima: sono un musicista e stop. Però se sono finito dove sono finito forse c’entra anche la droga. Ecco, a quel ragazzo direi: vivi, divertiti, ma droga mai. Non buttarti via, la vita è troppo bella, credimi».