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Le XIX Giornate della Traduzione. Tradurre, atto essenziale della vita

Marco Stracquadaini martedì 7 dicembre 2021
«Tre giorni di lezioni magistrali, seminari e tavole rotonde sulla traduzione e sull’editoria», recita la presentazione delle XIX «Giornate della Traduzione Letteraria», dal 10 al 12 dicembre, a cura di Stefano Arduini e Ilide Carmignani, per la Fondazione Unicampus San Pellegrino di Rimini. Le Giornate si terranno la prima in presenza, le altre due in streaming, con un programma ricco di eventi e specialmente di seminari.

Ogni traduttore o traduttrice traduce qualcosa per il puro gusto di farlo. Tre pagine, o trenta o un libro intero. Un libro intero è più raro. A meno di NON essere un traduttore. Allora sì puoi farlo per il puro gusto. José Salas Subirat era un assicuratore argentino con la passione (o tic?) del tradurre. Tra un’assicurazione e l’altra, mise in spagnolo-argentino l’Ulisse di Joyce, a tempo perso. Un po’ come tradurre l’Uomo senza qualità o la Recherche a tempo perso. Si dà il caso che Santiago Rueda, editore argentino commerciale e illuminato, indica un concorso per una traduzione dell’Ulisse. E Salas Subirat può presentare la sua pronta, dopo pochi giorni. La inviò, forse, o la lasciò nella segreteria dell’editore. Ma è più suggestivo vederlo che si presenta da Rueda in persona col pacco sotto il braccio. Questa storia eccezionale, però, storia di purezza letteraria, non ha bisogno di suggestioni. Così è nata la prima traduzione dell’Ulisse in lingua spagnola. Tradurre è meno insocievole che scrivere dato che siete in due. Il traduttore è una specie di scrittore che non scrive da solo. Quanto all’oggettività, vi si arriva, più o meno, bruciando tutta la soggettività bruciabile. Per un’altra strada non è possibile, poiché non si può rinunciare a se stessi nemmeno un secondo. Resta da vedere quanto siamo capaci di far entrare ciò che è fuori, interamente e senza molto contaminarlo, dentro di noi.Si può tradurre per far diventare una schiena un volto. Il disagio di trovarsi davanti a qualcuno che ti volta le spalle. Non c’è una sola cosa al mondo che non abbia un avanti e un dietro. Perfino i flaconi dello shampoo. E perché è rivolta verso il muro, quella sedia? Naturalmente questo vale tanto di più per le persone. Si può tradurre per il disagio del chiuso e dell’opaco. In questo il tradurre non è molto diverso dalla poesia o dallo scrivere in genere, nel caso in cui si scrive per vedere che cosa c’è dietro, e dentro.

Tradurre il Don Chisciotte è molto più facile che parlare della traduzione del Don Chisciotte. Soprattutto tradurre il Don Chisciotte è più facile che parlare dell’atto del tradurre in genere, perché è un atto che si va eliminando mentre si fa. Come avanzare mettendo il piede nell’orma di chi precede. Parlare del tradurre è difficile perché in un certo senso è parlare dell’inesistente. Da qui la sensazione di inafferrabilità e astrattezza, nei casi peggiori inutilità, dei saggi puramente teorici. Ma abbiamo il tic dell’analisi, anche per quegli atti il cui pregio essenziale è la sintesi, come è la poesia. La traduzione è come un atto che è tutto solo farsi. Mentre si fa si nasconde e il cui punto di partenza, e di arrivo, dovrebbe essere il non esserci. Giocare continuamente con la propria identità, con l’esserci e il non esserci. Se il risultato è ottenuto, alla fine, il lavoro del traduttore appare come un velo sottile o come un vetro trasparente, incolore. Se la scrittura è immateriale, tradurre lo è doppiamente. E se il traduttore riesce nell’intento di sparire, ottiene su un altro livello, più in profondità, quello che socialmente ha già ottenuto, malgrado le apparenze.Tradurre è dire un’altra volta. Dire di nuovo una cosa detta da un altro, che secondo te vale la pena di ridire. È raccontare, prolungare un racconto. Scrivere sotto dettatura, nella lingua che ti è naturale, l’unica.

Tradurre è attraversare. È leggere un libro tredici volte, due o tre volte prima, sei durante, e quattro dopo. Tradurre è il sogno del citatore: la citazione più lunga possibile del libro che vuoi citare. Se copi L’educazione sentimentale, quasi con le lentezze della scrittura originale (o più lentamente), alla fine del tuo lavoro hai scritto L’educazione sentimentale. Ogni tanto pensi che traduci per quattro o cinque persone. O per una o due. Lo pensi ogni tanto ma in profondità e con la certezza che sia così. Ti conducono quei due o tre: ti sollevano e ti portano e tu non devi fare niente.Tradurre è un atto che assomiglia ai più essenziali atti della vita. Agli atti, ai gesti, che ci mettono in contatto col fuori da noi. Non facciamo che tradurre costantemente il mondo che è fuori nel mondo che abbiamo dentro, e viceversa. Quando guardo, traduco. Traduco quando ascolto. Quando parlo. Le parole, sono il noi fuori di noi. Con le parole tocchiamo il mondo, e il mondo può toccarci. Sono come un tatto pubblico. Un surrogato del tatto. Quando traduci senti che puoi essere gli altri e che gli altri, di là dalle differenze, sono te.