Agorà

AGIOGRAFIA. Tommaso non mise il dito nella piaga

Roberto Beretta sabato 6 giugno 2009
Tutto gira intorno a quel dito: ha toccato oppure no il corpo risorto di Cristo? Perché in effetti, anche se la maggioranza sarebbe disposta a giurarlo, i Vangeli non lo dicono proprio: «Poi Gesù – scrive Giovanni – disse a Tommaso: "Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!». Ma l’apostolo diffidente non ebbe poi bisogno di mettere in pratica l’invito, per esprimere la sua professione di fede: «Mio Signore e mio Dio!», aggiunge infatti il Vangelo. Al che fa seguito la conclusione del Maestro: «Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!». «Perché mi hai veduto»: non «perché mi hai toccato»... E proprio dallo smascheramento dell’equivoco muove Glenn W. Most, professore di Filologia greca alla Normale di Pisa, per seguire Il dito nella piaga, intrigante nel suo indagare tra esegesi, apocrifi e iconografia. Ma è poi così importante sapere se l’apostolo abbia davvero toccato la piaga del costato del Crocifisso, oppure si sia limitato a cedere all’evidenza di un morto resuscitato che stava davanti a lui e gli parlava? Sì, se è vero – come il grecista Most dimostra – che tutto il capitolo 20 di Giovanni (il testo su cui si fonda il mito dell’incredulità di Tommaso) è imbastito intorno a una sottile simmetria contrappositiva tra la prima e la seconda parte, tra una donna che ha creduto subito e un uomo incredulo ad oltranza, tra l’emozione e la ragione, insomma tra la Maddalena cui fu interdetto persino il semplice «toccare» (Noli me tangere...) e Tommaso invitato invece a mettere la mano intera nella ferita. «Giovanni – così sunteggia la sua tesi l’autore – decide di concentrare tutta la complessa questione della fede in Gesù nel rapporto tra vedere e credere»; non per nulla in quel capitolo 20, su 31 versetti sono presenti ben 13 forme del verbo «vedere» e 8 per «credere». Il «toccare» non serve, o meglio così sembra anche leggendo i Vangeli sinottici; nei quali ad esempio – per dare una prova della sua esistenza materiale ai discepoli che non osavano toccarlo – Gesù domanda da mangiare. Solo Tommaso sembra voler andare oltre, chiedendo inizialmente – anzi pretendendo in modo persino blasfemo – di «mettere il dito nel posto dei chiodi». Poi però, giunto al dunque, non lo fa, tanto che per Most «supporre che Tommaso abbia effettivamente toccato Gesù significa non solo fraintendere un particolare del racconto di Giovanni, ma anche il contenuto più profondo e vitale del suo messaggio». Quello cioè che non solo non è indispensabile «toccare per credere», ma non è necessario nemmeno vedere: «Beati quelli che pur non avendo visto...». Dal tatto alla vista, all’udito: ecco la salita che porta allo «status più nobile» della fede. Infatti a chi si deve in primis il travisamento di Tommaso come l’uomo che effettivamente mise il dito nella piaga? Agli «eretici», ovvero gli apocrifi di sapore gnostico (sono almeno 5 quelli intitolati al discepolo il cui nome significa «gemello») per i quali Tommaso rappresenta appunto la perfetta incarnazione di una fede raggiungibile per via razionale – «toccabile» – da una élite di pochi adepti e con un sovrano disprezzo per la materia (il corpo). Si può dunque ipotizzare che fu anche l’intento cattolico di reagire alla spiritualizzazione operata dagli gnostici a sospingere la devozione popolare (ma anche i Padri della Chiesa e la Scolastica, da Tertulliano all’Aquinate, con sporadiche eccezioni) verso il convincimento che Tommaso toccò davvero la carne di Cristo. Ma poi di mezzo ci sono stati soprattutto i pittori, e Caravaggio su tutti; furono loro a veicolare nell’immaginario comune l’idea del dito nella piaga. Tuttavia, se dal IV secolo fino al Rinascimento la trascrizione iconografica dell’episodio ha sempre avuto alcuni canoni fissi (inserimento in un ciclo di altre immagini sacre, rappresentazione dei personaggi a figura intera) che tendono a relativizzare il gesto singolo, con la sua «Incredulità di san Tommaso» il pittore lombardo non solo ha sovvertito i modelli tradizionali – i soggetti sono ripresi infatti in piano americano e l’impianto non è certo devoto –, ma anche trasforma l’atto dell’apostolo in modo brutale, quasi rendendolo un’invasiva ispezione medica, addirittura – sostiene Most – «uno stupro». Quale il motivo? A parte ritrovarne alcuni stilemi nella pittura «protestante» nordica, l’autore sostiene che «il quadro ribadisce risolutamente la fisicità del miracolo di Tommaso contro chi tendeva a dubitarne (per esempio i riformati tedeschi)», ma allo stesso tempo prende atto di una fede – quella Controriformistica – che non sa più credere senza toccare, o almeno vivamente immaginare di toccare. «Tutte queste ferite – scrisse del resto san Carlo Borromeo in un’omelia dedicata appunto a san Tommaso – sono in effetti come molti squarci e il Signore vuole che penetriamo in essi, se vogliamo leggere». Caravaggio avvicina carnalmente il dubbio di Tommaso a noi, ai nostri dubbi; però potrebbe pure indurre a un errore: quello proverbiale dello stolto che si sofferma a fissare il dito mentre il saggio indica la luna. Glenn W. MostIl dito nella piagaLe storie di Tommaso l’IncreduloEinaudi. Pagine 230. Euro 22,00.