Agorà

INTERVISTA. Todorov: la libertà sul letto di Procuste

Daniele Zappalà giovedì 20 settembre 2012
​«A livello internazionale, viviamo in un mondo retto ancora da rapporti di forza anche spietati fra Stati ed altri potentati, con insidie persistenti come il messianismo politico o il populismo. Ma al contempo, le nostre democrazie sono pure nutrite quotidianamente da un umanesimo diffuso e quasi invisibile, costantemente all’opera». Con I nemici intimi della democrazia (Garzanti), il celebre saggista Tzvetan Todorov ha appena firmato la sua riflessione politica forse più ambiziosa. Da "storico delle idee", l’intellettuale franco-bulgaro ripercorre l’itinerario sfociato nell’odierno primato della democrazia, ma anche nella sua intima fragilità. Ne parlerà domani al Festival "Pordenone Legge" (ore 17, Convento di San Francesco).Nel suo saggio, lei sottolinea che il concetto di libertà appare oggi controverso. Perché?«Per me e per altri della mia generazione, la libertà è stata a lungo il valore supremo. Ma oggi, nelle democrazie liberali, ci rendiamo sempre più conto che non si possono sostenere in modo incondizionato tutte le libertà proclamate da chiunque. Già a fine Ottocento, il fondatore dell’antisemitismo moderno in Francia, Edouard Drumont, creò un giornale intitolato "La Libera Parola". Da allora, gli usi aberranti o discutibili dell’idea di libertà si sono moltiplicati, soprattutto quando si tratta di attaccare e discriminare chi ha origini diverse, come gli immigrati. È il caso degli odierni partiti xenofobi europei. Le famose vignette antimusulmane in Danimarca erano una forma di libertà? Almeno in parte, sì. Ma erano pure un’evidente provocazione dal sapore discriminatorio. Quest’uso della libertà d’espressione non mi pare legittimo. La libertà viene sempre più invocata come paravento di forme di potere talora molto discutibili». Anche al di là della politica?«Negli ultimi anni, ciò è stato molto vero pure per l’economia, dove una certa dottrina della libertà d’iniziativa è servita a spianare la strada a un’assolutizzazione dei mercati, spesso a scapito dell’accesso di tutti ai beni comuni. Già nell’Ottocento, il predicatore domenicano Henri-Dominique Lacordaire aveva lanciato in proposito un monito ancora attualissimo: "Fra il forte e il debole, è la libertà che opprime e la legge che affranca". La libertà dovrebbe essere superata dalla giustizia. Già all’epoca della Rivoluzione francese, Edmund Burke intuì che ogni libertà esercitata in pubblico è un potere e che deve essere limitata. Ciò significa pure che la libertà è invece sempre accettabile quando funge da contropotere. È vero, in particolare, per la libertà d’espressione nei regimi totalitari o oppressivi». Ciò richiama la sua visione della democrazia come sistema di equilibri...«La democrazia, in effetti, non è riconducibile a un unico principio, ma a un equilibrio fra diversi elementi, in particolare fra l’interesse dell’individuo e quello dello Stato o di un popolo. I due poli possono urtarsi e le frontiere non sono scontate. Gli individui scelgono una religione, delle convinzioni politiche, come vestirsi e mangiare. Ma lo Stato dovrebbe ad esempio limitare la concentrazione dei media e garantire la separazione fra politica e grandi gruppi mediatici. Al contempo, quando lo Stato spinge l’idea di progresso fino al desiderio di realizzare un paradiso su Terra, scivolando così nel messianismo politico e dimenticando l’imperfezione umana, anche una democrazia formale è minacciata». Per Rousseau, a lei caro e celebrato quest’anno, l’ultimo e vero garante è la coscienza umana. Era in ciò ingenuo?«In effetti, la coscienza è per Rousseau più centrale della ragione, poiché consente una sorta di test morale. Il ragionamento può essere deformato, non un esame di coscienza. Montaigne, in proposito, distingueva fra utile e onesto. La questione dell’universalità della morale resta irrisolvibile, anche perché la coscienza di cui parla Rousseau si mescola sempre con costumi culturali fra loro diversi. Non esiste dunque un substrato puro comune. Ma personalmente, al contempo, non vedo differenze lampanti fra i grandi sistemi morali storici, ovvero le grandi religioni e le grandi dottrine dell’umanesimo profano e laico, il quale ai propri albori fu cosciente di essere un modo di laicizzare la morale cristiana. All’uguaglianza di fronte a Dio, voleva sostituire quella di fronte agli altri. Senza volerle codificare, certe grandi intuizioni sono universali. Per riprendere un esempio confuciano, non si può non accorrere verso il bambino che cade in un pozzo».   L’umanesimo democratico rischia oggi di restare incastrato fra le derive nate dall’orgoglio prometeico, da lei descritte, e il nichilismo?«L’umanesimo non ha mai dominato da solo il mondo. Fra le altre visioni, si dovrebbe citare oggi pure quella scientista, una sorta di determinismo generale che ingloba la dimensione biologica, sociale, psicologica e individuale, nella quale sembrano sparire la libertà, la morale e la volontà. Ma trovo che l’umanesimo ha molto più di un semplice diritto d’esistenza. Per fortuna, nella vita concreta, è ben più praticato di quanto venga ufficialmente apprezzato. Gli individui continuano in gran parte a provare un bisogno di giustizia, uguaglianza, amore, affetto e protezione. Se a livello collettivo tendiamo a scovare dappertutto l’inumanità delle nostre condotte, ciò è ancora dovuto pure ai traumi delle tragedie del secolo scorso. E forse, dopo queste catastrofi, occorrerà sempre ammettere tutto il male di cui gli uomini sono capaci, prima di riconoscere ogni volta il nostro bisogno d’umanesimo».