Agorà

Intervista. Timi: dietro l'handicap c'è tanta vita

Angela Calvini sabato 29 marzo 2014
«Non so spiegarmelo neanche io, ma a questo punto della mia vita ho sentito il bisogno di scrivere un monologo ispirato a mia cugina disabile. Mi sono "fuso" con lei e ho sentito che avrebbe aiutato a capirmi meglio». Filippo Timi è uno di quegli artisti che spiazzano e dividono. Scrittore, autore teatrale, magnifico attore di cinema (divenuto popolare nel ruolo di Mussolini inVincere di Bellocchio) fa altalenare nei propri lavori il suo talento istrionico fra l’eccesso non sempre condivisibile e la riflessione poetica, passando attraverso un umorismo graffiante. D’altronde lui non ha mai nascosto un passato complesso, costellato di traumi e difficoltà anche fisiche, che lo porta, per sua stessa ammissione, alla ricerca di un equilibrio difficile da conquistare. Che Timi pare ritrovare nel monologo Skianto, che ha debuttato al Teatro Franco Parenti di Milano (dove resterà fino al 6 aprile), poi in tournée in Umbria per iniziare a novembre il tour ufficiale. Protagonista un moderno Pinocchio, un ragazzo cerebroleso che non riesce a parlare, che la gente considera un mostro, ma che in realtà dentro di sé capisce tutto, segue i cartoni animati, sogna di diventare un pattinatore e ama cantare. Un monologo sincero che colpisce al cuore, che commuove e diverte, anche se scivola in qualche espressione forte o volgare, ma che tiene la barra dritta su un concetto fondamentale: dietro quella che in molti considerano una "non vita" ce n’è di vita, eccome.Timi, come mai la decisione di dare voce a teatro a chi non ha voce?«Dopo dieci anni dai miei primi lavori è come se avessi concluso un cerchio. Desidero reiniziare, partendo dalla mia Perugia e dal mio vissuto. Mia cugina Daniela è nata con la scatola cranica sigillata. La frequentavo molto, perché viveva vicino a me e, come tutti i bambini, io non coglievo le complicazioni del suo stato. Per me era la cugina magica. Di notte la sognavo che mi sussurrava all’orecchio: "Guarda che io capisco tutto, solo che il papà e la mamma non se ne accorgono, sono abituati così". Io ho sempre avuto la percezione che dentro quella mente ci fosse un mondo».Portare in scena quel mondo, forse, può far cambiare la prospettiva al pubblico sulla disabilità mentale?«Magari: sarei felice di avere almeno instillato il dubbio che dentro quelle persone c’è una grande vitalità. Le racconto un altro episodio. In quarta elementare arrivò in classe Andrea, un bambino anche lui con difficoltà neurologiche. Io, che ero abituato a un modo di stare e di comportarsi di Daniela, ero contentissimo che lui ci fosse. Tutto dipende dai pregiudizi: se i disabili vengono trattati come persone normali possono migliorare tantissimo».Lei ha avuto altre esperienze sul campo?«Sì, sono vicino a diverse associazioni, in particolare sono amico della presidentessa dell’Associazione Amici di Tog che cura i bambini con gravi problemi neurologici, ora ne seguono gratuitamente 100. Mi colpisce la grandissima speranza e la pazienza che regnano in quei luoghi. Ci sono conquiste microscopiche che sono invece immense. Ero da loro quando un bambino ha imparato a deglutire: era una conquista tale che abbiamo fatto il trenino con lui e ballato per un’ora».Nel suo spettacolo teatrale, però, a un certo punto il suo "incompreso" grida al cielo la sua disperazione, l’idea che la morte forse potrebbe essere una liberazione dal dolore.«Sono purtroppo sentimenti comprensibili, il grido disperato di chi, però, vuole disperatamente vivere. Ma a chi dice che queste persone sarebbe meglio venissero eliminate rispondo secco: è omicidio. Mia cugina Daniela oggi ha 50 anni, vive serenamente accudita con tanto amore dai suoi genitori. Ecco, a quelle famiglie lasciate spesso sole bisognerebbe che lo stato desse più aiuto».Il 3 aprile esce nelle sale il film «I corpi estranei» in cui lei affronta un altro ruolo legato alla malattia. «Si tratta di un film indipendente di Mirko Locatelli cui tengo molto. Sono un padre rude, un uomo complesso, che viene da un paesino vicino Perugia, che porta in ospedale il proprio bambino piccolo malato di tumore. Il dolore, unito al senso di impotenza, è così immenso che per lui è impossibile esprimerlo. L’incontro con un ragazzo arabo aprirà uno spiraglio. Anche questo tipo di progetto coincide con la mia nuova fase».