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Intervista. Tim Burton: «Faccio cinema come terapia»

Alessandra De Luca sabato 17 dicembre 2016

Una scena di “Miss Peregrine – La casa dei ragazzi speciali” di Tim Burton

I ragazzi solitari, sensibili, lunari e un po’ misteriosi, quelli che si muovono romantici e impacciati nel mondo intorno a loro quasi arrivassero da un’altra dimensione, quelli “strani” che a scuola tutti prendono in giro, hanno sempre attirato la sua attenzione. E ora Tim Burton, uno dei registi più teneramente dark di Hollywood, torna a raccontarli portando sullo schermo il romanzo di Ransom Riggs, Miss Peregrine - La casa dei ragazzi speciali (in sala in questi giorni), favola nera cucita in perfetta sintonia con l’indole del regista di Edward mani di forbice, che con ogni film aggiunge un capitolo alla storia della propria infanzia. Ce lo racconta lui stesso con l’allegria e la solare vivacità che non vi aspettereste dall’autore di storie così malinconiche.

Anche lei, cresciuto in un sobborgo californiano, tra casette e giardini perfettamente allineati, è stato un “ragazzo speciale”...

«Io non mi sentivo strano ma la cultura nella quale sono cresciuto che mi considerava tale. E questo non ha fatto che aumentare il mio senso di isolamento, mi sentivo come se non appartenessi a quel mondo. Ho sempre lottato, sin dai tempi della scuola, contro la tendenza delle persone a inserire gli altri in categorie precise. Una volta che hai provato certi sentimenti come l’esclusione, la solitudine, questi restano sempre con te. Quindi sto ancora elaborando questi temi facendo cinema, una terapia piuttosto costosa, direi».

Quali erano gli interessi e i gusti della sua infanzia?

«Non sono stato un grande lettore, guardavo moltissima tv e mi nutrivo di film di mostri, che tanto amavo. Però amavo le storie di Roald Dahl, popolate di sogni strani, capaci di parlare sia ai bambini che agli adulti. E poi a sostenermi c’erano mia nonna e la mia insegnante di arte, che mi incoraggiava a essere me stesso».

Che rapporto ha con la tecnologia?

«Io sono totalmente antitecnolo- gico, che in mia presenza, ve lo assicuro, si bloccano computer e cellulari, si fulminano persino le lampadine. E quando mi capita di farne uso, mi sembra di inoltrarmi in un sentiero oscuro che mi terrorizza. Per questo trovo spaventoso e pericoloso che i ragazzini oggi misurino la propria autostima in base ai like che ricevono».

Ha detto che del romanzo di Riggs l’ha affascinata il fatto che la storia fosse raccontata attraverso delle fotografie.

«Sono un collezionista di foto e le foto dicono molto, ma non tutto, conservando una buona dose di mistero e poesia. I mostri che mangiano i bulbi oculari sono i nazisti, o forse no, perché la realtà si mescola liberamente alla fantasia, come in un mio film precedente, Big Fish. Il libro mi ha permesso di recuperare quella lentezza un po’ onirica alla quale i bambini, bombardati da immagini velocissime, non sono più abituati. E del giovane protagonista, Jacob, amo il fatto che si senta fuori posto, che si tuffi nella storia senza sapere esattamente cosa fare, che veda cose invisibili ai più, come a volte capita anche a me quando magari osservo un albero o una nuvola nel cielo e mi esercito a sviluppare la fantasia».

L’attrice Eva Green sembra essere diventata la sua nuova musa.

«Eva è come una star del muto, capace di proiettare emozioni, umorismo, dramma, forza, potere. Ed è assolutamente credibile nella sua trasformazione in uccello. Sembra la versione dark di Mary Poppins, tanto che l’ho soprannominata Scary (“spaventosa”, ndr) Poppins. Ma lei è decisamente meno spaventosa della famosa tata Disney».

A proposito di Disney, è vero che è lei il regista designato a dirigere il nuovo Dumbo?

«No comment» (sorride scaramantico)

Nel frattempo come riesce a mantenersi in disinvolto equilibrio tra studios e ciema indipendente?

«Sono stato fortunato, ho avuto una carriera libera. Ogni film che faccio è come se fosse il primo e l’ultimo, ho l’impressione di raccontare storie molto diverse ogni volta. Realizzo solo i film che “sento”, ne faccio più una questione emotiva che intellettuale ».

Un’ultima domanda a proposito di “mondi surreali”: come giudica, da cittadino inglese ormai, la svolta Brexit?

«Vivo a Londra da vent’anni, negli Stati Uniti ci torno poco. Non so spiegarmi cosa stia accadendo, vedo solo che tutto cambia molto velocemente, e nessuno riesce a prevedere davvero dove il mondo stia correndo».