Agorà

Il libro. Thuram, un calcio ai razzismi

Massimiliano Castellani venerdì 28 novembre 2014
Ci sono calciatori che pensano solo con i piedi, la maggioranza, e quelli che, partendo dai piedi e dai lanci in profondità, anche mentali, hanno costruito un loro percorso intellettuale. E questi sono gli esemplari unici, come Lilian Thuram. Un campione del mondo, a prescindere dal titolo iridato conquistato in campo con la Francia di Zidane nel 1998. Un idolo indimenticato dei nostri stadi (ha militato nel Parma e poi nella Juventus) che quando ha chiuso con il calcio - a 36 anni al Barcellona, complice anche una malformazione cardiaca - ha deciso che era giunto il tempo supplementare per impegnarsi su altri campi. Ha scelto quelli dell’educazione contro il razzismo e le sue azioni, il suo impegno, così come il suo pensiero è “forte” quanto la filosofia sull’antisemitismo del connazionale illuminato Alain Finkielkraut. Uno dei pochi nomi di spicco dell’intellighenzia francese che non compaiono nella sua seconda prova editoriale, Per l’uguaglianza. Come cambiare i nostri immaginari (ADD). Un saggio estremamente interessante che arriva dopo “Mes ètoiles noires”, «Le mie stelle nere» (edito in italiano sempre da ADD). In quel primo volume, l’eclettico Lilian ha riscritto una storia dell’umanità in versione “noir”, ribaltando pregiudizi obsoleti, purtroppo ancora molto diffusi, che vogliono la “grande storia” materia di dominio assoluto dell’uomo bianco occidentale. «Persino l’archeologia insegna invece che la nonna dell’umanità, Lucy, è africana e risale a oltre tre milioni di anni fa», è stato il calcio d’inizio di Thuram. L’assioma fondante che gli ha trasmesso il paleoantropologo e uno dei tre scopritori di Lucy, il professor Yves Coppens, il quale nel consegnargli il testimone di testimonial dell’antirazzismo gli ha ricordato: «Siamo tutti africani e questo dovrebbe spingerci alla fratellanza». Così, dopo aver battuto la Francia palmo a palmo salendo in cattedra nelle scuole, le università e le associazioni per farsi portavoce di una nuova cultura antirazzista su scala universale, Thuram ha messo in piedi un gruppo di 22 voci interdisciplinari. Due squadre per puntare i riflettori su ogni stadio dell’uguaglianza. Il fuoriclasse della difesa ancora una volta gioca di “testa” e d’anticipo per contrastare ogni forma di discriminazione (di pelle, religiosa, politica, sessuale) ed entra a piedi uniti nei confronti del peggiore avversario dell’uomo: l’ignoranza che mette a rischio il rispetto (e la parità) dei diritti umani. Thuram veste i panni del ct ideale e convoca una formazione internazionale (unico italiano l’antropologo Marco Aime) in cui ovviamente non può fare a meno di Coppens, schierato in un “tridente ideale” composto dal Nobel per la letteratura Jean-Marie Gustave Le Clézio e Tzvetan Todorov, che indaga intorno alla «pluralità umana». Mentre un Mario Balotelli (&C.), terminato l’allenamento quotidiano (due orette di “stressante” tiki-taka, chiamato calcio professionistico) da sempre si perde nell’insostenibile leggerezza dell’essere milionario del pallone, il suo collega Thuram, già ai tempi di Barcellona, (2008), si toglieva la tuta blaugrana e si recava di corsa al seminario di Todorov per un confronto diretto con il filosofo «sulle relazioni nella società polifonica». Quel tipo di società, che il giovane Lilian, «il primo bambino nato a Guadalupa nel 1972», ha scoperto emigrando da bambino in Francia. Un destino fortemente voluto da sua madre Mariana, cinque figli nati da padri diversi, «che a Guadalupa tagliava la canna da zucchero e faceva le pulizie». La Francia per lei e la sua prole era la terra promessa dove liberarsi definitivamente dalla “schiavitù”, anche se Thuram ricorda: «È stato a Parigi che sono diventato nero. Ad Anse-Bertrand (Guadalupa) non ci chiedevano di che colore fosse la nostra pelle. Eravamo tutti scuri». La prima sconfitta della sua vita è stato sentirsi chiamare, tra i banchi di scuola, «Noiraude», ma allo stesso tempo senza il liceo francese non avrebbe conosciuto la storia della schiavitù: «In Guadalupa non mi avrebbero mai parlato della tratta dei neri. Se lo avessero fatto avrei capito prima i pregiudizi legati al colore della pelle nei quali prevale ancora il complesso di superiorità del chiaro sullo scuro». Da questa riflessione precoce origina l’infaticabile attività di «decostruzione del razzismo» e l’impegno a superare tutte le diseguaglianze fin dall’infanzia. «Quando vado nelle scuole a parlare di razzismo ai bambini, loro mi dicono che riconoscono quattro tipi di razze umane: nera, gialla, bianca e rossa. Noi adulti abbiamo il dovere di cambiare questa prospettiva della “divisione”. E dobbiamo educare le persone fin da piccole, perché i bambini vedono cose che noi ignoriamo...». Fin da piccolo infatti Thuram nel condominio popolare di Fontainbleau Fougeres dava per scontata la convivenza con coetanei algerini, zairesi, pakistani o italiani («Benito l’amico del cuore compagno di scuola e e nella squadra del Portugais de Fontainbleau»). «Il futuro dipenderà dall’attitudine degli individui a riconoscere che tutte le culture partecipano a quell’insieme che è l’uomo», è il colpo di tacco di Le Clezio, ma per far questo occorre sviluppare quelle attività cerebrali che Thuram apprende dalla lezione del neurobiologo Jean-Didier Vincent. «Il cervello condiziona la maggior parte delle nostre scelte e azioni. La decostruzione dei pregiudizi e di un certo tipo di immaginario passa attraverso la comprensione di quello che ci governa e ci forma», scrive l’eterno fuoriclasse dei Blues che non intende porsi come fenomeno alieno di una galassia distante dal pianeta football. Il suo bagaglio del resto si è formato su un campo di calcio dove ha incontrato il “Maestro”, Arsène Wenger. L’educatore, prima dell’allenatore, che lo ha introdotto all’«universalità del calcio», in quanto arte e specchio del sociale. «Il mio sogno è che tutti, fin da bambini, siano immersi in un’altra cultura proprio per evitare il rischio del rifiuto degli altri», è l’assist che Wenger in Per l’eguaglianza serve al suo vecchio allievo, al quale aveva rivelato la formula del «successo nella vita che nasce dall’unione di due fattori: l’attitudine di un individuo e l’incontro con qualcuno che gli offra la possibilità di esprimersi». Quella possibilità Thuram l’ha avuta e l’ha sfruttata fino in fondo, senza mai perdere di vista la disciplina della terra, erbosa. Durante il ritiro dei Mondiali del 2006 (quello della finale di Berlino vinta dall’Italia contro la Francia) si “allenava” con “Football & mondialisation”, il saggio del geopolitico Pascal Boniface che quando era membro della commissione Onu per il disarmo ha accompagnato in visita in vari paesi africani. Perchè l’impegno nasce dall’incontro e dalla consapevolezza, come voleva Albert Einstein (Thuram lo mette in incipit) che «il mondo è un posto pericoloso in cui vivere, non a causa di coloro che fanno del male, ma di quelli che stanno a guardare e lasciano che accada».