Agorà

INTERVISTA. Essere più ospitali per credere con stile

Daniele Zappalà mercoledì 19 maggio 2010
«Esiste una pluralità di stili di vita nel mondo di oggi e la questione fondamentale per me resta ciò che caratterizza l’unicità dello stile cristiano. In cosa consiste la credibilità del Cristo? E nella società di oggi, in cosa consiste la credibilità dei cristiani? In che modo il Vangelo, questa buona novella, può toccare il cuore dell’uomo di oggi?». Il teologo gesuita francese Christoph Theobald si è soffermato per oltre trent’anni attorno a queste domande. La sua riflessione è condensata ormai nell’opera Il cristianesimo come stile. Un modo di fare teologia nella postmodernità, in due volumi, da poco tradotta dalle Edizioni Dehoniane di Bologna.Padre Theobald, perché ha scelto per titolo «Il cristianesimo come stile»?«La nozione di stile rimanda innanzitutto all’estetica, dato che si evoca ad esempio lo stile gotico o lo stile di un romanzo. Ma si parla anche dello stile di vita. Per questa doppia ragione, mi pare, si tratta di una nozione estremamente interessante per parlare dell’identità cristiana, della vecchia questione dell’essenza stessa del cristianesimo. La nozione di stile permette di vedere l’integralità della fede cristiana. Al contempo, direi, dal punto di vista del credere, dal punto di vista liturgico, dal punto di vista della vita di ogni essere cristiano. Il filosofo Maurice Merleau-Ponty ha parlato dello stile come dell’emblema di un modo di abitare il mondo. Si può vedere il cristianesimo in questi termini: nella sequela di Gesù di Nazareth, il cristianesimo propone una maniera molto specifica di abitare il mondo. La nozione di stile permette anche di cogliere meglio l’identità del Vaticano II, che fu visto da Giovanni XXIII e da Paolo VI essenzialmente come un concilio pastorale. Questo concilio non ha aggiunto verità a cui credere, ma ha riflettuto sulla totalità della dimensione cristiana nel mondo d’oggi».Un approccio del genere cerca di comprendere il cristianesimo come una realtà sempre nuova?«Sì, sempre nuova e sempre vitale. Anzitutto noi siamo molto fermamente legati alla tradizione, nel senso attivo del termine di una trasmissione. Come Gesù che ha consegnato la propria esistenza agli uomini nell’Eucaristia, siamo così invitati attraverso le epoche della storia ad entrare in questo gesto fondamentale che è sempre lo stesso, il suo. Ma allo stesso tempo, questo gesto libera in noi la creatività per avere un cristianesimo che, con tutta la sua radicalità, si adatta alla cultura nella quale viviamo».Sottolineando la singolarità dello stile di vita di Gesù, lei mette in evidenza il concetto di santità ospitale…«Se si analizza ciò che i testi ci raccontano a un primo livello, e penso ad esempio al Vangelo di Luca ma anche agli Atti degli Apostoli, si scorge che vi è una sorta di ospitalità aperta. Gesù è spesso invitato, mangia con i peccatori e le prostitute. Tante cose accadono attorno ai pasti. Peraltro, egli accoglie all’improvviso le persone quando esse si presentano. Tutto il suo modo d’essere è ospitale. Si tratta di una tematica fondamentale nell’insieme delle Scritture. La si trova all’inizio della Bibbia, se si pensa alle figure di Abramo e di Sara nel libro della Genesi. All’altro capo della Scrittura, nella Lettera agli Ebrei, si ritrova di nuovo la medesima tematica, con questa frase magnifica: "Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo", con un’allusione alla ben nota scena di Abramo. Accanto a questa ragione biblica, occorre sottolineare che il contesto contemporaneo ha spinto molti pensatori a riflettere sull’ospitalità. Se si spinge l’ospitalità all’estremo appare una sorta di paradosso, dato che non si può sapere se s’accoglie un amico o un nemico. Si può comprendere in questa direzione cosa sia la santità di Gesù di Nazareth, cioè un modo totalmente senza condizioni di essere ospitale di fronte a chiunque si presenti. Per me, in connessione con le Scritture e in relazione con la filosofia, si tratta di un modo di accostarsi all’unicità della figura di Gesù».Nella sua opera si sente con forza il bisogno di avere uno scambio col pensiero filosofico più recente. Si tratta di un aspetto importante della sua visione della teologia?«Credo di sì. Ho cercato di avvicinarmi all’identità stessa di Gesù Cristo, Figlio di Dio o – come dice il Vangelo di Giovanni – il Santo di Dio, a partire da una sensibilità contemporanea. È per me un compito primario. Allo stesso tempo, conservo la preoccupazione molto forte di riferirmi alle affermazioni cristologiche più alte che abbiamo ricevuto dalla tradizione cristiana. A partire da un modo simile di avvicinarsi all’unica santità, è probabilmente possibile far comprendere che Dio, che è tre volte Santo, ci comunica la sua propria santità attraverso Gesù di Nazareth e ci invita a prendere posto alla tavola della sua ospitalità. È un modo di esprimere la fede di sempre ma attraverso i termini e in direzione di una sensibilità contemporanea».Lei analizza la questione della credibilità dello stile cristiano. Si tratta di un aspetto da riscoprire?«In tutti gli ambiti le nostre società diventano in generale molto esigenti di fronte al problema della credibilità. Ho dunque cercato di prendere sul serio la questione. In fondo, la credibilità del Cristo è qualcosa di molto semplice, poiché la gente di Galilea l’ha ricevuto come qualcuno che è credibile. Innanzitutto, il Cristo è colui che ha sempre detto ciò che ha pensato e fatto ciò che ha detto. È una prima condizione di autenticità, di concordanza con se stessi. La seconda condizione consiste in un modo di affrontare le relazioni. La Regola d’oro ci aiuta a comprenderla: tutto ciò che vorrete sia fatto a voi, fatelo agli altri. Il che presuppone un atteggiamento molto specifico che il Cristo ha vissuto fino in fondo: una capacità di mettersi al posto degli altri con compassione e "simpatia" senza lasciare il proprio posto. Evidentemente, questa condizione è estremamente minacciata quando l’altro è un nemico. Il che può giungere anche dall’interno del piccolo gregge dei discepoli: la figura di Giuda. È qui che appare la terza condizione della credibilità, cioè una mutazione del rapporto verso la morte. L’Apocalisse esprime ciò magnificamente, parlando dei cristiani che "non hanno amato la vita fino al punto di temere la morte". Hanno imitato il Cristo che ha consegnato la sua esistenza. Il cristiano non può mai essere credibile come Cristo è credibile, ma vi è un modo di entrare in relazione con lui e di ammettere la propria non credibilità confessando al contempo il proprio desiderio di divenire sempre più conformi a lui. Ciò, mi sembra, può rendere oggi il cristianesimo sempre più credibile».