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FRONTIERE. Teologia del post-umano

Andrea Vaccaro martedì 5 giugno 2012
​In che modo, da cristiani, andremo incontro ai post-umani? La preoccupazione sembra particolarmente prematura; tuttavia, se è vero che i post-umani sono là da venire (se mai un giorno addiverranno), è parimenti accertato che i filosofi del post-umano sono già tra noi, e con una tendenza all’espansione. Sono anche facilmente riconoscibili, per la profusione di enhancement, «potenziamento», «perfezione», «immortalità» con cui rimpinzano ogni discorso. Oltreoceano il dibattito è vivo e pertanto anche alcuni teologi si sono inseriti. Con una prospettiva al momento non molto omogenea. Il più amato dai post-umanisti – o quantomeno il più benevolmente citato – è Philip Hefner, evangelico, primo direttore di Zygon, rinomato centro di ricerca tra religione e scienza con rivista annessa. L’arma con cui Hefner si è conquistato il centro dell’arena è il concetto dell’essere umano come created co-creator. Il bilanciamento è capillare: in quanto creati, siamo totalmente dipendenti dalla grazia di Dio; in quanto co-creatori, partecipiamo all’azione divina introducendovi la nostra intenzionalità. L’ammiccamento post-umanista avviene con espressioni come «il superamento dei limiti bio-fisici è un numinoso momento del co-creatore creato» (The Animal that Aspires to Be an Angel «L’animale che vorrebbe essere un angelo», 2010) o con titoli quale The Created Co-Creator Meets Cyborg «La creatura co-creatrice incontra il cyborg» (2004). Il passaggio da una narrazione dell’apprensione a una della speranza – urgente compito della teologia secondo il correligionario Stephen R. Garner – è così ben avviato dall’impostazione di Hefner, ma è lungi da un’approvazione generale. Ai teologi che vedono nel post-umano un modo per anticipare il regno di Dio, fanno infatti da contrappunto quelli che sottolineano la differenza tra coming e becoming: il regno di Dio «viene»; non è l’essere umano che lo «costruisce» (Carl Braaten). E così siamo introdotti nel capitolo che porta un esergo piuttosto inviso ai post-umanisti: «Mi vanterò ben volentieri delle mie debolezze» (2Cor 12, 9). Matthew Eppinette, nel suo Human 2.0, contributo a Everyday Theology (2007), conclude che la finitezza e la sofferenza sono aspetti costitutivi dell’essere umano, non da rimuovere, ma da comprendere e da orientare correttamente. Aggiunge anche che i post-umanisti vogliono, sì, il regno di Dio, ma non vogliono Dio al suo interno. Chris D. Putnam, del Liberty Theological Seminary, parla di una «collisione inevitabile» con il post-umanesimo e propone una rigorosa teologia della salvezza opposta al peccaminoso concetto di enhancement. Parole solo di poco più lievi da quelle pronunciate da Hava Tirosh-Samuelson, direttrice di Studi ebraici all’Università dell’Arizona. In un suo recente intervento, intitolato Humanity–, in esplicita opposizione al "marchio" post-umanista «H+», ha espresso tutta la sua «riluttanza, basata su una consapevolezza storica, verso il potere distruttivo del pensiero utopico», spiegando che «l’ossessione per la perfezione intesa come performance, piuttosto che come integrità morale» e «l’irriverenza verso il futuro» generano orrore e disgusto. Dinanzi a questioni teoriche che aggrovigliano in questo modo piani filosofici, teologici, esegetici e forse persino psicologici, uno strato di sano pragmatismo talvolta può giovare. In fondo, se il post-umano si rivelerà solo un’illusoria utopia, allora ci saremo preoccupati (e accapigliati) inutilmente; se, al contrario, un bel dì ce lo troveremo di fronte, allora, al di là delle dispute sulla responsabilità etica dei suoi «costruttori», non rimarrà che chiederci come poter essergli utili. Dato che sul piano fisico avranno già pensato a tutto i tecnologi, non rimarrà che la dimensione spirituale. Si potrebbe ricordare, ad esempio, che i beni e i piaceri materiali hanno la maledetta caratteristica o di non bastare mai o di venir presto a noia, mentre quelli spirituali – come scriveva Rabano Mauro – al contempo appagano ed alimentano il desiderio, oppure che donare (beni, tempo, attenzione…) ha una risonanza interiore più potente rispetto al possedere. I cardini del Vangelo, insomma. E il nome in codice della "missione" potrebbe essere: l’anima del post-umano.