Agorà

Inchiesta. Teatro, una riforma che divide

Pierachille Dolfini mercoledì 11 marzo 2015
Se sarà in meglio o in peggio lo diranno i prossimi tre anni. Certo cambia il panorama del teatro in Italia. Perché la geografia della prosa nel nostro paese è stata ridisegnata dalla riforma ministeriale che, sulla base di una progettualità triennale presentata dagli stessi teatri, ha cambiato la definizione degli organismi di produzione. I teatri stabili lasciano il posto ai teatri nazionali e ai teatri di rilevante interesse culturale, già ribattezzati Tric. Sette i primi, diciannove gli altri. Scelti da una commissione che ha analizzato i progetti arrivati al ministero per i Beni e le attività culturali e il turismo, assegnando ad ogni dossier un punteggio che ha consentito poi di stilare una graduatoria. E alla fine la 'classifica' è quasi venuta da sé. Perché il decreto prevede una griglia dettagliata di criteri da possedere per poter ottenere il riconoscimento. Progetti di respiro internazionale, attenzione alla drammaturgia contemporanea con almeno una produzione l’anno, riconoscibilità del nucleo artistico, lunga tenitura degli spettacoli e poche tournée, qualità pedagogica e presenza di una scuola di formazione per i teatri nazionali. Attenzione al territorio e collaborazione con le realtà locali, valorizzazione delle nuove generazioni di autori, registi e interpreti, servizio alle realtà locali per i Tric. «Una valutazione puramente tecnica, riferita a finanziamenti, personale, spettatori, strutture, accanto alla quale è stata messa un’analisi artistica dei progetto» spiega Oliviero Ponte di Pino, membro della commissione presieduta da Luciano Argano. «La riforma chiede un cambiamento al teatro italiano e come commissione abbiamo guardato alle realtà più dinamiche che con le loro potenzialità possono davvero cambiare il modo di fare teatro in Italia» continua Ponte di Pino che, insieme agli altri quattro membri della commissione, ha riconosciuto a sette realtà lo status di teatro nazionale, a iniziare dal Piccolo di Milano, unico in Italia ad essere anche teatro d’Europa. Accanto alla fondazione guidata da Sergio Escobar e, sino alla sua morte da Luca Ronconi, il Teatro di Roma, lo Stabile di Napoli, la fondazione Emila Romagna teatro, lo Stabile di Torino, il Teatro di Toscana e lo Stabile delVeneto. Riconosciuti teatri nazionali perché, come richiede il decreto ministeriale sono «organismi che svolgono attività teatrale di notevole prestigio nazionale e internazionale e che si connotano per la loro tradizione e storicità». Grandi esclusi il Biondo di Palermo e lo Stabile di Catania, ma soprattutto lo Stabile di Genova. «Il nostro teatro è il secondo più antico d’Italia, nato nel 1951 subito dopo il Piccolo di Grassi e Strehler. Quello che fa male è la commissione, oltre a non credere nel nostro progetto, non ha riconosciuto la nostra storia» dice Angelo Pastore, da dicembre direttore del teatro ligure. E se ancora amareggiato per l’esclusione parla di «decisione incomprensibile», annuncia che verranno fatte le «verifiche giuridiche e politiche per un eventuale ricorso. E se non otterremo nulla, male che vada ci riproveremo tra tre anni». Perché i riconoscimenti valgono per le prossime tre stagioni. Nel 2017 ci sarà un nuovo bando e la geografia teatrale potrebbe di nuovo cambiare. «Mi auguro – conclude Pastore – che in questo triennio chi deve vigilare sull’attuazione dei progetti lo faccia». Lo Stabile di Genova, insieme a Palermo e a Catania sono stati ricompresi, però, nella categoria dei teatri di rilevante interesse culturale insieme ad altre 16 realtà produttive che, si legge nel decreto, «svolgono attività di produzione teatrale di rilevante interesse culturale prevalentemente nell’ambito della regione di appartenenza». Nel gruppo, tra gli altri, l’Elfo e il Parenti a Milano, lo Stabile del Friuli Venezia Giulia e quello di Bolzano, Il Metastasio di Prato e il Teatro di Sardegna, l’Eliseo di Roma e lo Stabile dell’Umbria. Tutti hanno inoltrato domanda al ministero, presentando un progetto triennale e chiedendo di essere ammessi ad una specifica categoria. Dieci le domande per il riconoscimento dello status di teatro nazionale, trenta per i Tric. «Abbiamo valutato la storicità, ma soprattutto la progettualità e la qualità del presente, quella che le realtà sanno mettere in campo oggi» continua Ponte di Pino spiegando che nel decreto c’era la facoltà per il ministero di includere in altre categorie quei teatri che non presentavano le caratteristiche necessarie per ottenere il riconoscimento chiesto. «La soddisfazione è molta anche se, senza voler apparire presuntuosi, posso dire che un po’ ce lo aspettavamo » racconta Filippo Fonsatti, direttore dello Stabile di Torino. Anche la realtà piemontese ha presentato un progetto triennale «forti – spiega Fonsatti – di una strategia che dal 2007 ha portato questo teatro a costruire una sua specifica identità. Con un ricambio generazionale che ci ha portati ad avere uno staff con un’età media di 32/33 anni. E soprattutto con un aumento del 40% della produttività a fronte di una diminuzione dall’80% al 50% dei finanziamenti pubblici, vuoto colmato da sponsorizzazioni ed erogazioni liberali ». Diversa la posizione di Antonio Calbi, direttore del Teatro di Roma, comunque soddisfatto per il riconoscimento ottenuto. «Qualcosa migliorerà, qualche criticità emergerà, potrebbe anche verificarsi qualche danno, come accade sovente quando si varano nuove riforme. Oggi ci troviamo in sette teatri nazionali, troppi perché snaturano il senso della riforma. Tanto valeva puntare su venti teatri regionali, alla tedesca, e istituire due, massimo tre teatri nazionali». Ma la partita non è solo una questione di nomi. È soprattutto una questione di contributi. Perché il nuovo panorama, disegnato in questi giorni dalla commissione ministeriale, ridefinirà la ripartizione del Fondo unico per lo spettacolo, anche questa su base triennale. «Sono preoccupato per gli investimenti che servono e che non si vedono all’orizzonte» dice Calbi per il quale «minori trasferimenti dallo Stato ai comuni e alle regioni, ritrarsi dei privati, mettono in ginocchio molte istituzioni e realtà culturali meritorie». Non c’è ancora chiarezza su come verranno ripartiti i finanziamenti. Di certo i Tric dovrebbero essere più legati agli enti locali, proprio per il loro carattere di organismi legati al territorio. Un ulteriore cambiamento rispetto al sistema teatrale italiano, da sempre basato su compagnie di giro. «Perché – conclude Ponte di Pino – teatri nazionali e teatri di rilevante interesse culturale dovranno programmare la maggior parte degli spettacoli in sede, diversamente dai centri di produzione, altra categoria introdotta dalla riforma, che sono chiamati a portare in tournée i loro lavori».