Agorà

Ascoli Piceno. Teatri del Sacro, luogo di vere domande

Alessandro Zaccuri venerdì 21 giugno 2019

Un momento della rappresentazione “Niente che resti non amato”, spettacolo che arricchisce il cartellone della sesta edizione dei Teatri del Sacro

Dalla chiesa di San Pietro in Castello non si esce a mani vuote: c’è chi si mette in tasca un sasso o una matita intagliata da un ramo, chi tiene fra le dita una piuma oppure una foglia di basilico appena colta dalla pianta. Si esce tutti insieme, più che altro, in una processione che suggella il percorso da cui nasce Niente che resti non amato, che si aggiunge ai dieci spettacoli di cui si compone quest’anno il cartellone dei Teatri del Sacro. Una performance – delicatamente giocata tra memoria, condivisione e rito – che per il direttore artistico Fabrizio Fiaschini rappresenta bene lo spirito della manifestazione: «Non soltanto un festival che invade per qualche giorno le vie e le piazze di una città, ma una presenza che dura nel tempo, lasciando un segno e avviando un processo», afferma.

Per i Teatri del Sacro questa del 2019 è un’edizione importante. Si tratta della sesta in ordine di tempo e della seconda che si celebra ad Ascoli Piceno (le precedenti avevano sede a Lucca), ma cade anche nel decennale dell’iniziativa, promossa con cadenza biennale dalla Federazione dei Gruppi attività teatrale (Federgat), in collaborazione con l’Associazione cattolica esercenti cinema (Acec), la Fondazione Comunicazione Cultura e l’Ufficio per le Comunicazioni sociali Cei, e con il sostengo del Ministero per i Beni e le attività culturali. Già in termini di dati, il bilancio del decennio è decisamente positivo: «Gli spettacoli di cui abbiamo favorito la produzione sono un centinaio, le repliche complessive più di un migliaio – elenca Fiaschini –, ma l’aspetto di cui siamo più fieri è un altro. Nel 2009 partivamo da un’intuizione tutta da verificare: il teatro, ci dicevamo, può ancora essere territorio d’incontro fra le ragioni della fede e quelle del dubbio, fra l’esperienza dei credenti e quella di quanti coltivano una diversa visione del mondo. A distanza di tempo, possiamo dire di non esserci sbagliati. Di edizione in edizione, gli spettacoli hanno preso a dialogare fra loro in modo sempre più evidente, lasciando emergere nuclei tematici ben riconoscibili. Per questa edizione abbiamo provato a proporne uno noi. La scelta è caduta sulle Opere di misericordia. Che sono, a loro volta, gesti sovrabbondanti, nella direzione di un’apertura verso l’altro che diventa conquista della dimensione spirituale, trascendente. Il teatro, come insegnava già Jerzy Grotowski, è un’azione interiore, intima, capace di istituire connessioni a un livello superiore».

Più ancora di quanto accadeva in passato, quest’anno gli spettacoli selezionati per i Teatri del Sacro (le proposte sono state circa 250) si strutturano spesso secondo una partitura rituale. Una caratteristica che si ritrova, appunto, in Niente che resti non amato, esito di un laboratorio formativo per operatori di teatro sociale condotto nei mesi scorsi ad Ascoli sotto la supervisione di Monica Morini e Bernardino Bonzani, attori e registi del Teatro dell’Orsa di Reggio Emilia. Un mosaico di vicende personali, tradizioni popolari recuperate, ricordi condivisi attraverso lo scambio di piccoli doni (piume e matite, ma anche biscotti e bocconi di pane) che alludono in modo abbastanza trasparente alla comunione eucaristica. «Ognuno di noi porta con sé anche quello che ha perduto – dice Monica Morini – e che a volte lascia un’eco già nel nostro nome».

E infatti è proprio da qui, dalla pronuncia del nome, che la performance prende le mosse sul sagrato della chiesa. Un’ora più tardi da quella stessa chiesa si esce per scendere verso il fiume: per mettersi, di nuovo, in ascolto di una voce indecifrabile e familiare. «Anche questo è un segno della volontà di dialogo, di valorizzazione della creatività, di ricerca di un confronto che dalla comunità cristiana si estende a tutta la città», osserva il vescovo di Ascoli Piceno, monsignor Giovanni D’Ercole, che anche quest’anno ha confermato il suo appoggio ai Teatri del Sacro. I luoghi di culto del capoluogo marchigiano, del resto, costituiscono un elemento importante nel tessuto della manifestazione. Lo spettacolo inaugurale, per esempio, si è tenuto mercoledì sera nella chiesa dedicata ai Santi Vincenzo e Anastasio, una costruzione romanica oggi ai margini del centro storico.

«Attorno a noi scorre il traffico della circonvallazione, ma non dobbiamo preoccuparcene troppo: lasciamo che anche questi rumori entrino nello nostro spazio di ascolto», ha raccomandato Antonella Talamonti, che con gli attori-cantanti della compagnia Faber Teater ha proposto un nuovo allestimento del suo Stabat Mater. Non un semplice conserto, ma un’installazione sonora che si modifica a ogni esecuzione, sfruttando le caratteristiche architettoniche e acustiche del luogo che la ospita. «Con alcuni tratti ricorrenti – sottolinea l’autrice –. La processione sulle note diSette ispadas de dolore, un canto sardo della Settimana Santa, si svolge sempre lungo la navata centrale, mentre il Crucifige ispirato a Jacopone e i brani in albanese arcaico degli arbëreshë possono avere collocazioni differenti a seconda della conformazione e della risonanza degli spazi».

Il coinvolgimento dei partecipanti è fortissimo. La musica scaturisce da anfratti inattesi ed è sufficiente una mano che si posa su una spalla per descrivere la profondità e l’universalità del lutto. Anche questo spettacolo, come Niente che resti non amato, si conclude con l’uscita comunitaria dalla chiesa. Ai lati del portale, i cantori ripetono la melodia solenne dello Stabat Mater, in modo da esaltare la compenetrazione fra il tempo del sacro e i tempi della quotidianità. L’opera di misericordia evocata è, in questo caso, la consolazione dovuta agli afflitti. Ma il rispecchiamento dell’invisibile nel visibile è l’essenza costituiva del rito. Ed è, di conseguenza, l’origine stessa del teatro.