Agorà

Storie di cuoio. Tatanka Hübner e il Divin Codino, l'artigiano e il campione

Massimiliano Castellani venerdì 6 marzo 2020

Il Tatanka, l’uomo verticale da riserva indiana pallonara, al secolo Dario Hübner, e il Campione, il predestinato con il “10” tatuato nell’anima, il Divin Codino Roberto Baggio. Così lontani, eppure così vicini. Spacciatori di emozioni delle tribù del calcio. Coscritti, classe 1967, nati entrambi in paesi del remoto ed operoso nordest italico: Darione nel comune di Muggia ( Trieste), Roby nella vicentina Caldogno. Famiglie semplici, proletarie (Baggio è il sesto di una squadra di otto figli), che a entrambi hanno insegnato il valore essenziale dell’umiltà. «Se resti umile, con la stessa mentalità di quando eri tra i dilettanti, allora puoi fare strada. Non solo nel calcio, ma anche nella vita», insegna il Tatanka. Umiltà artigiana quella di Hübner, artistica quella di Baggio che, non a caso, nei giorni di gloria, per l’Avvocato possedeva piedi che pennellavano capolavori pari a Raffaello Sanzio.

Nei giorni tristi e zuppi di lacrime invece il Divin Codino agli occhi dello stesso Gianni Agnelli si trasformava nell’inaccettabile e timoroso «coniglio bagnato». Animale assai distante dal coraggioso e dirompente Bisonte muggese, ora celebrato dal “cinematografico” Tiziano Marino nella biografia Dario Hübner. Mi chiamavano Tatanka (Baldini+Castoldi. Pagine 198. Euro 17), così come fa altrettanto il “lirico” Stefano Piri con Roberto Baggio. Avevo solo un pensiero. (66thand2nd. Pagine 203. Euro 17). Il pensiero comune del Tatanka e del Campione è sempre stato quello di divertire divertendosi, gonfiando le reti delle porte avversarie (348 Hübner - in tutte le categorie - 205 reti in Serie A, settimo marcatore di sempre). Destini incrociati, quelli del 16enne Dario, apprendista fabbro che dalla gavetta prima strappò un posto da caposquadra nelle ditta (finestre in alluminio) e poi quello da titolare nella Muggesana («Prima categoria, in cui per giocare alla domenica mi allenavo il martedì e il giovedì dopo le sette di sera: giro di campo e due saltelli »), con il “predestinato” del Menti che, alla stessa età, debuttò in serie B con il Vicenza e il 3 giugno 1984, realizzò il suo primo gol, rigore trasformato contro il Brescia. Roba da favola, anzi da graphic novel come quel Roberto Baggio. Credere nell’impossibile (Becco Giallo. Pagine 152. Euro 18) di Mattia Ferri e Nicolò Belandi. Ed è a Brescia che i destini del Tatanka e del Campione si incontrano, e al cospetto di un orgoglioso Eugenio Corioni, il patron del club lombardo, e di un incuriosito mister Carletto Mazzone si strinsero la mano e divennero amici, per sempre.

Stagione di Serie A 2000-2001. Otto anni dopo aver vinto il Pallone d’Oro (1993), un Baggio stanco, addolorato per le troppe operazioni al ginocchio e dalle altrettante entrate assassine dei fabbri di campo, tra le lusinghe della Reggina e le offerte di quel mezzo mondo che lo idolatra come l’eterno Principe Azzurro (il calciatore italiano più famoso nel pianeta) accettò l’offerta del Brescia di Corioni. Quello stesso presidente visionario che nel ’97 aveva visto nel trentenne Tatanka del Cesena «l’ariete del futuro». Nei cinque anni in Romagna, dove era arrivato «ancora grezzo » dal Fano di Guidolin, Hübner si era divertito ad andare sempre in doppia cifra conquistando la corona di re dei bomber della B, 22 gol, stagione 1995 ’96. Solo lui e l’altro cecchino appartenente alla classe operaia salita in paradiso, Igor Protti, sono stati capaci di vincere la classifica dei marcatori in C, in B e in Serie A. L’ultimo titolo di Super Dario, nel 2002: a 35 anni il Tatanka portò in salvo il Piacenza realizzando 24 pesantissime reti e chiudendo al 1° posto nella classifica dei goleador, a pari merito con un campione del mondo, il francese della Juventus David Trezeguet. Quel record del capocannoniere più longevo nella storia della Serie A ha resistito fino al 2015 e, ironia della sorte, l’ha battuto proprio quel Luca Toni che lo costrinse a lasciare il Brescia, ma senza offesa: «Ragioni tecniche, a Baggio serviva gente come lui e Igli Tare».

Ma prima, l’annata dell’incontro fatale tra Tatanka e il Campione. «Baggio aveva 35 anni molti acciacchi alle spalle... Si allenava per conto suo e in in partitella dovevamo stare attenti ai contrasti. Però poteva farti vincere le partite in qualsiasi momento... Con lui in campo non era mai finita. Anche al 92’ se c’era una punizione, sapevamo benissimo che una su tre la buttava dentro», ricorda Hübner che era il capitano di quel Brescia ma al fantastico approdo del Divin Codino non ebbe un attimo di esitazione: «Roby – gli dissi – ecco la fascia da capitano, è tua, perché il tuo nome agli occhi degli arbitri conta molto più del mio. Però sappi che i rigori li batto io». Bastò una stretta di mano e un «ci mancherebbe Dario, se sei stato in rigorista fino ad ora non vedo perché cambiare», disse il Campione. Roby-gol, il faro di un centrocampo bresciano in cui stava facendo prove tecniche da campione del mondo il giovane Pirlo e quel Pep Guardiola che era sceso a Brescia da Barcellona per studiare il calcio mazzoniano per poi laurearsi dottore in tiki-taka. In quel Brescia che con Tatanka e il Divin Codino conquistò uno storico 7° posto e un passaggio in Europa (eliminati in Intertoto dal Paris Saint Germain, ma senza perdere nei due match), c’era un altro uomo verticale venuto dalle risaie vercellesi, il difensore Vittorio Mero, morto a 27 anni in un incidente stradale il giorno che era squalificato e non partì per la trasferta di Parma. Al Tardini si giocava la semifinale d’andata di Coppa Italia e quando la funerea notizia rimbalzò in campo Baggio chiede solo: «Mero”? Abbassa lo sguardo e si sfila i guanti neri lasciandoli cadere nell’erba, poi esce dal campo seguito dai compagni», annota Piri. Umanità di Baggio, silente, tipica del grande talento che sì sa, è quasi sempre timido.

Mero l’uomo di fatica, il calciatore di sacrificio, come Tatanka che cinquantenne rifugge ancora dai poster idolatranti, e ai posteri ricorda: «Tenete sempre a mente che i sacrifici veri li fa la gente che si alza all’alba e va in fabbrica ogni giorno, non certo i calciatori». Eppure lui, come il Campione si sono sempre sacrificati per la squadra. Baggio prima di superare, con la sua innata semplicità, gli avversari, ha dovuto fare i conti con il dolore costante e con una certa pubblica ottusità che, spesso, partiva dalla tribuna stampa e arrivava fino alla panchina. Lì, i Sacchi e i Lippi, e chi ha vinto con lui in campo non gli hanno mai risparmiato l’arsenico e vecchi, stupidi mottetti («la divetta», lo chiamava Zamparini). Baggio si è sempre ribellato ma a differenza del suo epigono argentino Maradona lo ha sempre fatto gridando a bassa voce, mantenendo il karma da saggio tibetano.

Sul prato del Rose Bowl, lo stadio di Pasadena c’è un ciuffo d’erba vicino al dischetto del rigore, che da Usa ’94, cresce più rigoglioso grazie alle lacrime versate dal Divin Codino: il pianto dopo il rigore decisivo sparato al cielo che consegnò il Mondiale al Brasile. Una ferita indelebile, quanto la mancata convocazione del Trap a Giappone-Corea 2002, quando si parlò anche di una possibile chiamata azzurra in zona Cesarini del Tatanka che, passato a Piacenza da potenziale “finito” aveva vissuto l’ultima splendida primavera da capocannoniere. «Baggio in Nazionale, Del Piero a lavorare», urlavano a Bologna dei tifosi quando videro Trapattoni. E Baggio quella crudele bocciatura non l’ha dimenticata. «Forse passerò da presuntuoso e arrogante, ma per una volta non mi interessa: meritavo di essere tra i convocati di quel Mondiale – si legge nel libro di Piri – . Anche se non avrei giocato, non meritavo di stare fuori. Era qualcosa che il calcio mi doveva. Forse è anche per questo se oggi me ne sono allontanato».

Dopo il 16 maggio 2004, giorno di Milan-Brescia, l’ultima volta che il suo lungo codino brillò in campo sotto il sole di San Siro (tutto in piedi a salutarlo) il Campione si è rifugiato nel caldo tepore di una vita appartata e famigliare. Baggio è sparito dal pianeta calcio come Mina da quello della musica. Resta il mito. E quando per il suo 50° compleanno, a sorpresa, è apparso tra i terremotati della Valnerina è tornata a battere forte quella nostalgia che fa cantare a Cesare Cremonini «da quando Baggio non gioca più, non è più domenica». E le domeniche di Hübner? Anche il Tatanka alla poltrona dello stadio preferisce le sedie della Trattoria da Rosetta di Capergnanica (Cremona) dove, calciatore anonimo di serie C, aveva conosciuto sua moglie e dove oggi fa il cameriere il fidanzato di sua figlia. È lì, in quel “Roxy Bar” della memoria di cuoio Hübner spera, che magari un giorno si aprirà la porta ed apparirà il suo amico Baggio. Allora, il Tatanka e il Campione si abbracceranno forte sulle note di We are the Championsdei Queen e canteranno quel refrain che sembra scritto apposta per loro: «Mi sono preso i miei applausi / E sono stato chiamato alla ribalta / Mi avete dato fama e fortuna e tutto ciò che ne consegue /. Vi ringrazio tutti».