Agorà

Pallone nel caos. Uefa e politica stoppano Agnelli. Superlega, adesso il "patto" langue

Massimo Iondini giovedì 22 aprile 2021

Andrea Agnelli

Il pallone gonfiato dai dodici della Superlega non rimbalza più e i birilli sono caduti uno alla volta in rapida sequenza, dall’Inghilterra alla Spagna all’Italia. Dalla notte dei lunghi coltelli di domenica a quella che ha bucato la sfera magica sono passate soltanto 48 ore. Notte da lupi e Agnelli sbranati con il torneo più corto della storia malgiocato in notturna e a riflettori spenti. A togliere la luce, in prima fila l’illuminato Boris Johnson con le sue minacce fiscali e legislative ai sei club separatisti d’Oltremanica. Il suo fiuto politico col tempo pare essersi affinato e l’immunità di gregge l’ha estesa anche ai tifosi, ergendosi a protettore della primigenia passione di un popolo che il football l’ha inventato.

Sull’altra sponda invece, oltre ad aver sbagliato progetto, tempi scenici e comunicazione, Andrea Agnelli avrebbe anche sbagliato lupo. Non è stato il premier britannico ad azzannargli la creatura, gli rispondono infatti da Downing Street dopo aver letto che secondo il presidente della Juventus la dura opposizione di Johnson al progetto della Superlega sarebbe stata dettata dal fatto che «se sei squadre si fossero staccate e avessero minacciato la Premier League – aveva detto Agnelli –, la politica l’avrebbe visto come un attacco alla Brexit». Ma per il portavoce del premier, il governo è stato unicamente motivato dalla «importanza del calcio», che è nel «cuore delle comunità di tutto il Paese», anche se tra meno di tre settimane è in programma un’importante tornata di elezioni amministrative ed è meglio che il pallone non prenda imprevedibili traiettorie.

Le reazioni dei tifosi, a partire da quelli del Chelsea, martedì sera prima della partita col Brighton, e del Liverpool (già lunedì) avevano del resto dettato subito la linea. Cosa non accaduta con la stessa veemenza in Italia dove un sondaggio dell’Istituto Piepoli darebbe comunque contrario alla Superlega il 58% dei tifosi italiani. Più possibilisti quelli di Juve (oltre il 60% a favore), Milan (53%) e Inter (sotto il 50%).

Passando dalle opinioni ai fatti, numeri perentori vengono invece dalla Borsa dove all’impennata di lunedì del titolo Juventus cresciuto dell’8,5% ha fatto seguito ieri un crollo del 13,70% a 0,75 euro. Nessuna perdita per gli azionisti con la quotazione tornata al livello pre-Superlega ma un «danno reputazionale», spiega l’analista Filippo Diodovich di Ig Italia, perché «dimostra che un progetto così importante in realtà non era altrettanto solido». Così ieri accanto alla sede della Federcalcio a Roma campeggiava il murales di uno street artist che ritrae Andrea Agnelli (“premiato” da Striscia con un Super-Tapiro) mentre buca un pallone con un coltello, a sottolineare anche il fiasco in campionato e l’ennesima eliminazione dalla Champions. Tempi duri per il presidente bianconero che, dopo avere abbandonato la presidenza di Eca e l’incarico in Uefa, deve ricucire anche i rapporti con le istituzioni del calcio e le altre società, ma soprattutto fare i conti con il bilancio sempre più in rosso della Juventus.

«Il progetto non esiste più senza i club inglesi» ha dovuto infine ammettere dopo l’insonne notte di martedì quando Oltremanica si è alzata bandiera bianca. Eppure fino all’ultimo accettare l’inesorabile resa ad Agnelli e Florentino Perez, in testa, sembrava impossibile e inglorioso. Di fronte al disastro imminente, i superstiti club spagnoli e italiani ipotizzavano ancora altri ingressi, evocando il Siviglia o il Napoli, la Fiorentina o il Lione. L’ultima mossa era stata la diffusione di un comunicato congiunto per annunciare «la sospensione» della Superlega, con la necessità di «rimodellare il progetto», ma nel frattempo l’Inter si è già defilata perché «non più interessata».

Soltanto ieri è arrivata invece la ritirata ufficiale del Milan, punito anche sul campo proprio dal “piccolo” Sassuolo quasi a chiudere con un beffardo e istruttivo finale la paradossale vicenda. A chiedere scusa ai tifosi non è però l’ad e direttore generale Ivan Gazidis, principale fautore del progetto Superlega («inizia un nuovo capitolo» aveva detto due giorni fa), ma Paolo Maldini nella sua carica di direttore tecnico. «Vorrei precisare che non sono mai stato coinvolto nelle discussioni sulla Superlega – è la clamorasa ammissione della bandiera rossonera –. Ho saputo domenica sera, dopo quel comunicato congiunto, di questa cosa decisa a un livello dirigenziale più alto rispetto al mio... Ma questo non mi esenta dalla responsabilità di scusarmi con i tifosi, non solo quelli del Milan ma in generale, che si sono sentiti traditi nei principi fondamentali propri dello sport. Ricavi e sostenibilità sono importanti, ma senza cambiare i principi dello sport fatti di meritocrazia e di sogni». Dai sassolini che Maldini si toglie dalle scarpe ai macigni rigettati sulla sponda nerazzurra dall’ad dell’Inter Beppe Marotta che replica alle accuse lanciate dal presidente del Torino: «Io non ho tradito, non sono Giuda, sono innamorato di questo sport e cercherò sempre di fare il bene. Per quanto riguarda la mia carica personale, non concepisco l’attacco di Urbano Cairo fatto violentemente davanti a tutti. Ho ricevuto minacce pubbliche e private anonime. È un fatto molto grave».

E poi sulla fallita Superlega, spiega: «La buona fede di questa azione sta nel fatto che il calcio sia a rischio default. Negli ultimi 7 anni Inter, Milan e Juve hanno speso 1 miliardo di euro nell’acquisizione di giocatori e oggi è impossibile sostenere questi costi. Questa azione, scoordinata, ha un principio di buona fede: dare stabilità ai club, al sistema. Ma sono stati sottovalutati aspetti importanti, come la voce dei tifosi, vero patrimonio». E mentre allo Stadium di Torino campeggiava uno striscione dei tifosi bianconeri («La nostra storia non va infangata, barattata e commercializzata»), a Roma ieri si presentavano gli Europei che debutteranno all’Olimpico. Echeggiano le parole del presidente della Figc, Gabriele Gravina, che come Ceferin esclude «processi, condanne o vendette trasversali. Non si può sanzionare un’idea che non si è concretizzata – dice il numero uno del calcio italiano –. Ma è un alert che deve far riflettere, qualcosa non funziona».