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LETTERATURA . Consolo: Sud, la cultura fa Sos

Giorgio Agnisola martedì 25 agosto 2009
Vincenzo Consolo riceve nella sua casa milanese. Sono quarant’an­ni che ha lasciato la sua Sicilia. « La distanza è sempre dolorosa – dice –, ma non v’è mai stato distacco. Non può esservi per uno scrittore che viene da terre così forti come quelle del Sud. Da noi esiste l’emigrazione fisica, non quella letteraria». Prima di sedersi per l’intervista, mostra alcuni libri che con­serva in un mobile a parete, libri rari, prime copie con dedica di grandi autori del passato e vocabolari, di arabo, di greco antico, di dialetto siciliano, che sono stati alla base del suo lavoro. Con­solo è scrittore umorale, visionario; la sua pagina è attraversata da un profon­da vena lirica. Ma Consolo è anche ana­litico indagatore dell’identità linguisti­ca e spirituale della sua terra. Senza op­porsi alla grande tradizione letteraria siciliana, ha puntato a rinnovarla dal­l’interno, guardando con acutezza al­l’attualità, avendo ben piantate le radici nella storia. In che modo la storia oggi può essere per uno scrittore uno spazio ispirati­vo? «È impossibile leggere il presente senza la prospettiva storica. E più il presente è complesso, come quello del nostro Sud, più lo sguardo storico è fonda­mentale. Però leggere la storia non si­gnifica solo capire la realtà in prospetti­va, ma anche individuare in essa quei segni che possano costituire un rinno­vamento del presente». Ma per uno scrittore come si attua questo rinnovamento? «L’invenzione è soprattutto rinnovata coscienza di ciò che si ha, di ciò che si è. È un errore pensare che la scrittura sia semplice improvvisazione dell’ani­mo: la scrittura è anche e soprattutto studio, lettura; se non scriviamo su al­tre scritture, scriviamo su noi stessi: non siamo uno sguardo nei confronti degli altri e del tempo in cui si vive». Sembra del resto che il contesto stori­co- sociale sia stato fondamentale nella storia letteraria siciliana, no? «La particolarità degli scrittori siciliani, soprattutto da Verga in poi, e in genere degli scrittori meridionali, è l’attenzio­ne verso il mondo esterno. Da noi è quasi assente il romanzo d’introspezio­ne psicologica, che appartiene ad altre aree letterarie. Ciò perché la Sicilia ha sempre avuto una storia sociale non fe­lice e questo ha portato i siciliani a chiedersi la ragione di questa infelicità e a cercarne una spiegazione attraverso la scrittura. È dunque soprattutto la produzione letteraria, da Verga a Piran­dello, da Vittorini a Brancati, fino a To­masi di Lampedusa e a Sciascia, a testi­moniare della complessa entità della Sicilia, frequentata da civiltà diverse che tuttavia passando per l’isola e pure dominandola hanno lasciato i segni profondi della loro cultura e della loro lingua». A proposito della sua scrittura, si è par­lato in particolare di «letteratura di impegno» . Come sono andate matu­rando le sue scelte narrative? «Frequentavo l’università, nell’imme­diato dopoguerra, alla Cattolica di Mi­lano. Erano gli anni in cui si andava compiendo quella che Pasolini chiama­va la ' mutazione antropologica' del nostro Paese. In piazza Sant’Ambrogio c’era il Coi, il Centro Orientamento Im­migrati . Vedevo quotidianamente mas­se di contadini che venivano dal Sud. Arrivavano alla Stazione centrale, veni­vano messi su un tram senza numero e scaricati al Centro, dove venivano sot­toposti a controlli e visite mediche e poi spediti in Germania, Francia, Sviz­zera e in Belgio, nelle miniere di Marci­nelle. A centinaia. Uomini cotti dal sole nelle saline e contadini che abbando­navano il mare e i campi: uomini inon­dati di luce che andavano a lavorare nelle grigie campagne del centr’Europa o nel buio della terra. Quella vista mi impressionò, capii che non si poteva più scrivere come gli scrittori che mi a­vevano preceduto, da Moravia a Scia­scia; che la scrittura non poteva essere più centrale e illuministica, che aveva perso l’infinito che aveva in sé, di cui a­veva scritto Leopardi a proposito della nostra lingua, e che occorreva voltare pagina. Uno scrittore può fare molte scelte stilistiche, parlare delle sue ango­sce esistenziali o inseguire una lettera­tura fantastica o evasiva o storico- me­taforica, ma poi, come dice Roland Barthes, ha il dovere della scrittura di intervento». Il suo linguaggio è apparso fin dai pri­mi romanzi – e soprattutto ne «Il sorri­so dell’ignoto marinaio» ( 1976) che la fece conoscere al grande pubblico – singolare, suggestivo, innovativo. Co­me è andato formandosi? «La mia ricerca è stata fin dall’inizio in­dirizzata a sondare i giacimenti lingui­stici della mia terra, quelli delle lingue più antiche, il greco, il latino, l’arabo, lo spagnolo, il francese, e far riemergere quei vocaboli in disuso o in uso solo nei dialetti, per innestarli nella lingua cen­trale. Si è trattato di una operazione che nulla aveva a che ve­dere con il dialetti­smo delle scritture odierne, suggerito dai mezzi di comu­nicazione. Il mio processo era in realtà contrario: cer­care gli archetipi e i sedimenti del passa­to linguistico italia­nizzandoli e orga­nizzando poi la frase in senso ritmico, ri­correndo spesso alle assonanze e alle rime, al passo di una sensibilità interio­re». Cosa consiglierebbe a un giovane scrit­tore? «Di essere fedele a se stesso, di non ce­dere alle tentazioni spettacolari, alle sue logiche e alle sue dinamiche, di sentire la responsabilità di essere una voce che per sua vocazione racconta non solo il presente e il passato, ma an­che e soprattutto il futuro».