Agorà

SCIENZA. Il mistero di Stradivari? Proprio nessuno...

Gianni Fochi mercoledì 30 dicembre 2009
Più sorprendente d’Adriano Celentano, che nel film Mani di velluto produce vetro a prova di scassinatore, grazie a un dettaglio imprevedibile: uno sputo dentro la fornace. L’ingrediente segreto delle vernici prodigiose che Antonio Stradivari stendeva sui suoi celeberrimi violini si direbbe più banale ancora, perché semplicemente... non c’è. A questa conclusione inattesa è arrivato un gruppo di ricercatori francesi con collaboratori in Germania, e l’ha pubblicata sulla rivista tedesca «Angewandte Chemie». I due capifila sono Jean-Philippe Echard e Loïc Bertrand, e il primo lavora al Musée de la Musique di Parigi, dove sono conservati cinque strumenti – quattro violini e una viola d’amore – che Antonio Stradivari fabbricò in un arco di quasi trent’anni, fra il 1692 e il 1720, e quindi si collocano nella piena maturità della sua tecnica costruttiva. Fra i più celebri liutai della tradizione cremonese, fiorita a metà del Cinquecento con Andrea Amati, egli esercitò il suo mestiere dal 1665 circa fin quando morì nel 1737. La magia dei suoi strumenti, che non si limita al rendimento acustico, ma affascina anche l’occhio, ha incuriosito gli scienziati. La chimica non poteva restare a lungo fuori del cimento, e infatti sulle finiture di Stradivari i chimici cominciarono a indagare già all’inizio dell’Ottocento. Per un paio di secoli le difficoltà si sono tuttavia rivelate insormontabili, e hanno portato a ipotesi contraddittorie. Alcuni studiosi avevano segnalato la presenza occasionale di sostanze inorganiche, come il vermiglione ottenuto dal minerale cinabro, che chimicamente è solfuro mercurico, o la pozzolana, roccia che prende nome da Pozzuoli e si forma in eruzioni vulcaniche esplosive. Assai più difficile è risultato farsi un’idea precisa delle sostanze organiche, le quali sono proprio la base delle vernici. In linea di principio, esse possono avere origine animale o vegetale: albumina e caseina da uova e latte, o collagene da cartilagini, ossa, pelli, nel primo caso; nell’altro, resine di conifere od oli di lino o di noce, detti siccativi perché all’aria seccano, in quanto i loro doppi legami carbonio-carbonio subiscono una polimerizzazione, cioè l’unione di molte molecole fra loro. Purtroppo le analisi che erano state fatte potevano tutt’al più rivelare qualcosa per alcuni strumenti singoli, senza fornire una visione d’insieme, e oltre tutto non si poteva escludere che i pezzi studiati avessero subito interventi di restauro, cosa che naturalmente avrebbe potuto portare a risultati non rappresentativi. I cinque strumenti presi ora in esame costituiscono invece un ottimo campione: si trovano al Musée da almeno un secolo, periodo in cui sono stati suonati e maneggiati assai meno dei loro simili in possesso di noti concertisti, e comunque ogni cosa sul loro conto è stata accuratamente annotata. Echard e i suoi ricercatori ne hanno tratto frammenti piccolissimi, che poi hanno analizzato con tecniche estremamente aggiornate e raffinate. Le conclusioni sono molto simili per tutti e cinque i soggetti, sebbene prodotti in anni abbastanza lontani l’uno dall’altro. La composizione chimica è stata chiarita tramite le microspettro-scopie infrarosse in trasformata di Fourier a radiazione di sincrotrone (Sr-Ftir), Raman confocale (Mrs) e a raggi X accoppiata alla microscopia elettronica a scansione (Sem-Edx), nonché la gas-cromatografia dei prodotti di piròlisi (decomposizione a temperature alte) accoppiata alla spettometria di massa (PyGc-Ms). Al microscopio ottico le sezioni trasversali hanno rivelato essenzialmente due strati: quello inferiore penetra nelle cellule più esterne del legno, l’altro costituisce il rivestimento esterno ed è spesso da uno a tre centesimi di millimetro. Dal primo dei due sono sicuramente assenti sostanze inorganiche e materiali proteici: niente derivati dell’uovo o del latte, dunque, e neppure colla animale; anche gomme e cere sono state escluse. Confermato invece l’uso d’oli siccativi. Nello strato superiore la parte organica è analoga, ma con l’aggiunta di resine di pino, abete o larice. L’artigiano stendeva dunque un primo strato sigillante e incolore, interamente vegetale; su di esso veniva poi applicata la finitura, anch’essa vegetale, leggermente colorata. Compaiono qui ingredienti inorganici. Nel violino Provigny del 1716 un rosso organico, probabilmente estratto dalle cocciniglie, impregna microgranuli d’allumina (ossido d’alluminio); all’epoca un pigmento del genere veniva ottenuto per reazione del colorante con allume in ambiente alcalino. Nel Davidoff (1708) e nella viola d’amore ci sono anche ossidi di ferro molto puri (ematite e magnetite). Tutti materiali, insomma, largamente diffusi all’epoca in cui Stradivari lavorava. D’unica c’è solo la sua maestria.