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Netflix. "Da 5 Bloods": il Vietnam dei neri secondo Spike Lee

Alessandra De Luca domenica 7 giugno 2020

Da 5 Bloods

«Black lives matter», le vite dei neri contano. Così urlano da giorni nelle strade di un’America in fiamme gli attivisti del movimento internazionale nato all’interno della comunità afroamericana e impegnato nella lotta contro il razzismo. Mai così tanti bianchi insieme a loro per protestare contro la brutale uccisione di George Floyd e la repressione imposta da Trump. Così ribadisce da Brooklyn il regista Spike Lee dal suo account Instagram, da sempre impegnato a rivendicare diritti e pari opportunità degli afroamericani anche nell’industria cinematografica. E a riflettere su pagine di Storia dimenticate per sottolineare il contributo dei neri nella costruzione e nello sviluppo degli Usa.

Dopo aver conquistato nel 2018 il Festival di Cannes con BlacKkKlansman, la commedia amara tratta da una storia vera sul reclutamento del Ku Klux Klan negli Usa degli anni Settanta, Lee sarà dal 12 giugno su Netflix con Da 5 Bloods – Come fratelli, ovvero la guerra in Vietnam vista con gli occhi degli afroamericani che pagarono un tributo enorme in termini di vite umane e che, una volta tornati in patria da una guerra giudicata immorale e impopolare, non solo non vennero accolti da eroi come era accaduto ai reduci del secondo conflitto mondiale, ma ricominciarono a combattere su un altro fronte, quello dei diritti civili.

«La prima persona che sia mai morta combattendo per la bandiera degli Stati Uniti – ricorda il regista, che ha scritto il film con Kevin Willmott – è stato un nero, Crispus Attucks, ucciso dagli inglesi durante il massacro di Boston. Durante la guerra del Vietnam la popolazione afroamericana negli Usa era dell’11%, ma il numero di soldati neri che combattevano era del 31%. Abbiamo dunque subito un numero sproporzionato di morti e feriti. In Vietnam poi è morto il primo soldato nero, il diciottenne Milton Olive, a ottenere la Medaglia all’onore».

Ispirato a una storia vera, Da 5 Bloods – Come fratelli racconta di quattro veterani afroamericani – Paul (Delroy Lindo), Otis (Clarke Peters), Eddie (Norm Lewis), e Melvin (Isiah Whitlock, Jr.) – che, ormai ultrasessantenni, tornano in Vietnam, dove Apocalypse Now è oggi il nome di una discoteca di Ho Chi Minh City, per recuperare non solo i resti del loro quinto “fratello”, il caposquadra Norman (Chadwick Boseman), caduto in battaglia, ma anche un tesoro in lingotti d’oro trovato nella carcassa di un aereo e poi sepolto per poterlo successivamente distribuire tra la propria gente. A loro si unisce, non invitato, David, (Jonathan Majors), il figlio di Paul, che con il padre ha un rapporto molto conflittuale, mentre il francese Desroche (Jean Reno) si offre dietro un lauto compenso di tramutare l’oro in denaro e di trasferirlo in un conto corrente offshore.

Le ricerche riportano i quattro amici in un mondo che per anni è stato loro ostile, e ad attenderli nella giungla sono i fantasmi del passato che risolleveranno emozioni contraddittorie, sensi di colpa e frustrazioni esasperate da quello che l’America ha poi riservato loro: discriminazione razziale, malattia, povertà, rimpianti e vergogna.

Certe guerre non finiscono mai, sottolinea il regista lasciando che gli attori interpretino se stessi da giovani nei flashback, senza però ringiovanirli, perché i quattro sono di nuovo immersi in un inferno che l’avidità, il sospetto e la discordia renderanno ancora più tragico. Lee guarda al celeberrimo e già citato film di Coppola sul Vietnam e a Il tesoro della Sierra Madre di John Huston, lavora con i materiali di archivio, ma quando riflette su cosa voglia dire essere afroamericano negli Stati Uniti non assolve tutti i neri, scavando nelle loro contraddizioni.

Il personaggio di Paul infatti, interpretato da Delroy Lindo, è uno di quegli afroamericani che hanno contribuito all’elezione di Trump (soprannominato “Agent Orange” da Lee, che non pronuncia mai il nome del Presidente), come conferma anche il suo cappellino da baseball rosso con la celebre scritta “Make America Great Again”. «Inizialmente ho avuto enormi problemi con questo aspetto della personalità di Paul, non volevo interpretare un personaggio che fosse un supporter di Trump – confessa l’attore – e infatti quando ho letto per la prima volta la sceneggiatura mi sono proprio bloccato. Ne ho parlato con Spike e gli ho chiesto di cambiare un po’ il personaggio, di farne un conservatore, ma non necessariamente un supporter di Trump. Lui ci ha riflettuto per alcuni giorni e poi ma detto che non sarebbe stata la stessa cosa. Allora ho riletto la sceneggiatura e, accettando la tragicità del personaggio, ho provato comprendere razionalmente il perché di quel voto. Lo ha fatto perché profondamente deluso. Paul ha bisogno di sentirsi apprezzato, riconosciuto per il suo contributo e quando Trump arriva urlando "America first" e assicurando lavoro per tutti, lui interpreta le sue parole come una promessa personale. Pensa che finalmente otterrà quello che gli è stato negato fino ad oggi e che dopo essere stato fregato per tutta la vita dal proprio Paese è venuto finalmente il momento della riscossa. Ma ovviamente si sbagliava». La battaglia continua ora, incalza Spike da Instagram, sul terreno della giustizia sociale.