Agorà

Inediti. Spagna 1938,Vaticano contro il franchismo

Marco Roncalli giovedì 19 marzo 2009
Quale fu veramente il pensiero della Santa Sede nei confronti del Fuero del Trabajo, quella «Carta del lavoro» ispirata all’analoga mussoliniana e promulgata in piena guerra civile , parte fondamentale delle Leyes fundamentales del regime franchista? La risposta non è di poco conto considerando il peso di questo codice nell’istituzionalizzazione del regime, orientata dalla Falange verso il modello fascista, o la sua la valenza propagandistica compattante estado tradicional ed estado totalitario, cattolici e falangisti. Soprattutto se non dimentichiamo che apparve il 10 marzo 1938, sotto lo sguardo degli alleati italiani e tedeschi, ma ancora senza quel riconoscimento de iure del governo spagnolo da parte vaticana, più volte sollecitato dal Caudillo. Sul prossimo numero di Mondo Contemporaneo (editore Franco Angeli), un saggio di Giuliana Di Febo interviene proprio su questo tema offrendo documenti utili sulla vexata quaestio della percezione vaticana dell’esistenza di un pericolo totalitario in questo capitolo di storia. «Rinnovando la tradizione cattolica di giustizia sociale e profondo senso umanitario (…) lo Stato nazionale, in quanto è strumento totalitario al servizio dell’integrità della patria e sindacalista in quanto rappresenta una reazione contro il capitalismo liberale e il materialismo marxista intraprende la missione di realizzare – con abito militare, costruttivo e gravemente religioso – la Rivoluzione che la Spagna ha avviato…». Ma, a parte questo preambolo piuttosto confuso, è ben certo che il Fuero finiva per sostenere l’irreggimentazione di ogni forza produttiva, la proibizione dello sciopero ed altre disposizioni totalitarie, temperate proprio da richiami piuttosto forzati alla dimensione cattolica. Sull’esito di questo «congegno» assemblato quasi ad illustrare il massimo punto di convergenza tra Chiesa spagnola e Falange, sono quattro i documenti offerti da Giuliana Di Febo che aprono nuove riflessioni. La lettera inviata da monsignor Ildebrando Antoniutti (incaricato di Affari della Santa Sede presso il governo di Franco) al segretario di Stato cardinale Eugenio Pacelli, con allegato il testo del Fuero il giorno della sua promulgazione, accompagnato da un’approvazione incondizionata (nella condivisione di una concezione del diritto al lavoro come «dovere imposto all’uomo da Dio», del riposo domenicale, di un salario legato alle esigenze di una «vita morale e degna», eccetera); la richiesta di un giudizio da parte di monsignor Giovanni Battista Montini, sostituto per gli Affari ecclesiastici ordinari al direttore della Civiltà Cattolica ( il ricorso al parere di padre Felice Rinaldi era stato voluto dal cardinal Eugenio Pacelli); una lettera dello stesso Rinaldi che accompagnava il parere formulato del gesuita Angelo Brucculeri e – in linea con questo – il messaggio di ritorno ad Antoniutti di Montini il 26 marzo (pubblicato qui a fianco). Pur sottolineando nel Fuero l’opposizione al marxismo e al liberalismo e la centralità della questione sociale, segnalata la scarsa incisività delle dichiarazioni sul latifondo, Brucculeri vi ravvisava le deficienze presenti anche nella Carta del lavoro fascista («Il sindacato infatti è strumento a servizio dello Stato», eccetera). Prudente la conclusione, al di là del giudizio favorevole: «Una simile organizzazione corporativa, se può tollerarsi in un periodo di transizione dell’economia, come regime permanente o definitivo è d’ispirazione totalitaria più che cristiana». Una prudenza condivisa da Montini, che nella sua lettera del 26 marzo 1938 (con una brutta copia tormentata da cancellature e correzioni a rivelare una stesura inquieta), non descriveva alcun pregio della legge (come aveva fatto Antoniutti) scegliendo la formula dell’auspicio rivolto al Governo Nazionale circa l’effettivo «rifiorire delle condizioni sociali del popolo», rilevando il contrasto tra l’«affermazione di tanti sani principii» e la presenza di una «tendenza 'totalitaria' più che cristiana», sottolineando come da questo contrasto sarebbero potute «scaturire conseguenze non benefiche all’avvenire spirituale della nazione, né in tutto conformi agli insegnamenti della Santa Chiesa». Ciononostante, come ricorda De Febo, due mesi dopo l’approvazione del Fuero, la Santa Sede riconosceva il governo di Franco, e mentre la guerra volgeva a favore dei nacionales nel maggio ’38 monsignor Gaetano Cicognani era nominato nunzio presso il Gobierno nacional. Il dittatore, alla presentazione delle carte credenziali del prelato, richiamando le misure del suo governo per cancellare la legislazione anticattolica precedente , citava a suo favore «lo spirito profondamente cristiano e umano caratterizzante il Fuero del Trabajo ». De Febo conclude: «Il timore, pur presente, di una possibile involuzione totalitaria in chiave statalista non portò alla formulazione dell’idea di una incompatibilità di convivenza tra la Chiesa e le due dittature». Anzi: «La stessa questione sociale diventava elemento di conciliazione tra cattolicesimo e istituzioni autoritarie». Difficile da smentire, anche senza scomodare le parole di Pietro Scoppola: «Il cattolicesimo sociale non si è misurato con il problema della libertà». Purché, sulla bilancia della storia, oltre a prendere atto di comportamenti diversi all’interno del Vaticano, si aggiunga – insieme alla riconversione dell’Alzamiento da parte della gerarchia ecclesiastica in una crociata – il peso rilevante della violenza antireligiosa scatenatasi nei primi mesi della guerra.