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INTERVISTA A SERGIO GIVONE. «Solo l'etica salva uomo dal contagio»

Alessandro Zaccuri giovedì 5 luglio 2012
Il contagio si diffonde, anche in libreria. Mentre il Mulino presenta la prima versione italiana di Il pestifero e contagioso morbo (pagine 148, euro 13,00), un saggio dell’81 in cui Carlo Maria Cipolla ricostruiva da par suo credenze e superstizioni della medicina secentesca, fa molto discutere la ricognizione filosofica che Sergio Givone – docente di Estetica all’Università di Firenze e da poco assessore alla Cultura del capoluogo toscano – conduce in Metafisica della peste (Einaudi, pagine XVIII+206, euro 22,00). Un percorso a ritroso, dall’epidemia senza nome descritta da Cormac McCarthy nel romanzo La strada sino al morbo scatenato dal peccato del protagonista nell’Edipo re di Sofocle, per individuare una via d’uscita dalla contrapposizione fra «colpa e destino» (così il sottotitolo) che la peste evoca. «Una delle caratteristiche della malattia – sottolinea Givone – è di sopravvivere perfino a se stessa».In che senso, professore?«Anche dopo essere clinicamente debellata, la peste continua a occupare i nostri pensieri sotto forma di metafora. Negli scorsi decenni abbiamo sentito parlare di peste atomica, sessuale, ecologia, finanziaria...»Cambia qualcosa?«No, il dato sorprendente è proprio questo: ogni volta che ci si trova a fronteggiare questa calamità, si ricorre alle stesse categorie interpretative. Che non solo sono antichissime, ma in un certo senso non sono neppure in contrasto l’una con l’altra».A che cosa si riferisce?«Il punto di partenza resta immutato: la peste è il manifestarsi della natura come “nuda vita”, sciolta da ogni vincolo, senza scopo apparente, priva di un progetto che non sia il suo stesso propagarsi. Ma la peste non si accontenta di ricondurre la natura al grado zero. Nello stesso tempo abbatte le convenzioni tra gli esseri umani, provocando disordine e anarchia. Ogni legame è sciolto, ogni sistema di valori vacilla».Davanti a questa catastrofe quali spiegazioni riusciamo a darci?«Una di tipo religioso, anzitutto, inserita nella teologia della salvezza: nel destino che la peste rivela c’è una “destinazione” che discende dall’alto, in virtù della quale è possibile espiare una colpa misteriosa e originaria. Nella letteratura italiana, è la posizione dolorosamente testimoniata da Manzoni. Sull’altro versante, c’è un atteggiamento che potremmo definire irreligioso, interamente compreso nella filosofia della natura. In questa prospettiva la “vita nuda” alla quale la peste ci costringe sta al di fuori di qualsiasi disegno trascendente, è un castigo che si sconta per il solo fatto di essere nati. Qui, nella nostra tradizione, è riconoscibile la voce di Leopardi, che a sua volta si rifà alla lezione di Lucrezio».Posizioni inconciliabili, verrebbe da pensare.«Lo credevo anch’io quando ho iniziato questa ricerca. Ma all’atto pratico queste due dottrine finiscono per coincidere. Ecco dunque il cardinal Federigo che, nei Promessi sposi, invita i sacerdoti ad andare amorevolmente incontro agli appestati, ecco il Leopardi delle ultime lettere al padre che, alla notizia del diffondersi del colera, esprime il desiderio di raggiungere a piedi in suoi cari per condividere il pericolo con loro. È il medesimo punto su cui, nella Peste di Camus, finiscono per incontrarsi padre Paneloux e il medico ateo Rieux».E questo che cosa significa?«Che davanti alla libertà senza senso espressa dalla peste, l’unica risposta possibile è un diverso esercizio di libertà, quello che ci rende responsabili del nostro stesso destino».Vale anche per le pesti metaforiche di oggi?«Vale a maggior ragione, direi. Autori come Dostoevskij sul piano metafisico e Klemperer su quello politico (fu lui a studiare il nazismo come “peste del linguaggio”) ci ricordano che c’è un’unica etica possibile, ed è quella di riconoscerci responsabili anche di quello di cui, oggettivamente, non siamo responsabili. Più di questo, l’uomo non arriva a fare. A meno di non compiere il salto che lo stesso Dostovskij suggerisce contrapponendo all’annichilimento pestilenziale l’evento salvifico della Risurrezione».