Agorà

INTERVISTA. Solo contro il male La corsa di Antibo

mercoledì 29 aprile 2009
Partire da Altofonte e conquistare il mondo. Medaglie olimpiche (argento nei 10.000 a Seoul ’88), europee, gare spettacolari, giri e giri di pista in testa al grup­po. Senza tattica, senza calcoli, solo con la vo­glia di arrivare primo. Vincere. Perché que­sto sapeva fare Salvatore Antibo, con quella sua sicilianità che si portava dentro e che tra­spirava dai suoi occhi e nella sua corsa sul­le piste di tutto il mondo. Totò vince ancora oggi. Ogni giorno, ogni mi­nuto, una continua corsa contro la malattia che l’ha colpito e che lo costringe a una vita difficile, spesso di rinunce, allietata solo dal­l’amore per la famiglia, moglie e figli. Epi­lessia è il verdetto, il “piccolo male” quando nulla si è più potuto nascondere dopo quel 10.000 ai mondiali di Tokyo nel ’91. Era in testa alla gara, proiettato verso l’oro con passaggi intermedi sotto il record del mondo. Poi la luce si è spenta d’improvviso; estraniato per qualche secondo a causa del suo male si è ritrovato all’arrivo ultimo con un notevole ritardo. Antibo oggi non ha un lavoro, vive con un sussidio di 17mila euro che il Coni con la legge Onesti finalmente gli ha passato, all’alba del 2005. Testimonial del­la Lice (Lega italiana contro l’epilessia) qual­che giorno fa è stato a Bari per la presenta­zione della “Bari in Corsa”. Cosa significa questa sua presenza? «Ci tengo che tutti conoscano meglio l’epi­lessia, non bisogna avere vergogna. Il mio messaggio è chiaro. Dico ai genitori di non chiudere i bambini ammalati in casa. Biso­gna farli vivere, all’aria aperta, farli divertire, ridere, sognare. Oggi tutti vogliono incon­trarmi, sono felice, ma non posso acconten- tare tutti: non posso muovermi con facilità e ho bisogno di tanto riposo». Com’è la sua vita oggi? «Complicata. Non posso avere la patente; dunque per ogni minima devo chiedere aiu­to a mia moglie, oppure a parenti o amici e non sempre è possibile. Mi rimane la corsa, quattro volte alla settimana, di mattina». Sempre innamorato dell’atletica? «È la mia vita. Corro per 40/50 minuti. Mai però da solo, una crisi epilettica potrebbe ar­rivare da un momento all’altro e correndo su strada finirei in un secondo sotto una mac­china. Mi accompagnano sempre degli a­mici, in particolare Salvatore Di Matteo. Più che una corsa è una camminata veloce, 7 mi­nuti al km, 25 km a settimana circa. Di più non posso fare, sono troppo debole». Segue ancora le grandi gare? «Certo, ma la vera atletica era quella dei miei tempi, non quella costruita di oggi. Quella ve­ra era formata da Lambruschini. Di Napoli, Damilano, Cova, Panetta, dal sottoscritto. Voglio fare i complimenti a Baldini (oro nel­la maratona ai Giochi di Atene), ma l’Italia non è più quella di una volta. Oggi c’è troppa Africa, spero che non diventi come in altri sport dove si prendono i keniani e li si fanno diventare citta­dini italiani. Questo non deve accadere». Perché oggi manca una generazione come la vo­stra degli anni ’80? «I ragazzi non hanno più dentro quella voglia di arrivare che ti fa fare i sacrifici. Gaspare Po­lizzi (il tecnico che lo ha scoperto) mi ha det­to in questi giorni che ha un ragazzino forte tra le mani: dice che è il nuovo Totò». Ha mai pensato a quanto avrebbe potuto ancora vincere senza il suo stop? «Spesso lo faccio. Sarei certamente passato alla maratona, volevo vincere una marato­na olimpica e magari quella di New York. C’è che dice che non avrei potuto fare il mara­toneta, troppo indisciplinato tatticamente. Ma io sono per lo spettacolo, l’atletica deve essere spettacolo». Qual è il suo ruolo per la Lice? «Ho accettato di essere in prima fila solo per i ragazzi, i bambini epilettici che tanto sof­frono. I medici dicono che si può fare sport, ma i genitori hanno paura e non li fanno muovere. Non ne vedo il motivo se corrono accompagnati come faccio io. Ci vuole qual­cuno che parli sempre con loro durante la corsa, anche solo mille metri. Per tenerli sve­gli e per soccorrerli nel caso. È bruttissimo che i bambini epilettici spesso non possono stare a scuola; è vietato perché se dovesse venire una crisi gli altri ragazzi potrebbero ri­manere sconvolti». A lei quante volte è suc­cesso? «Sono migliorato, ma non certo guarito. Sono passato da 15 crisi al me­se a sole 4 o 5. Potrebbe­ro venire ogni istante... Serve qualcuno che stia sempre con me, nel caso succedesse mi prenda anche a schiaffi per te­nermi sveglio e salvarmi. Uno stress mentale impressionante perché vivi con la paura. Quello che sto sopportan­do da 19 anni è terribile. Prendo 1.200 gram­mi di medicine al giorno, devo programma­re tutto con orari precisi». «Anni fa mi stavo per operare al Besta di Mi­lano - ci confida Antibo - . Un’operazione complicata, la parte sinistra del cervello com­pletamente aperta e una possibilità su dieci di non sopravvivere o rimanere paralizzato. E non sarebbe cambiato tanto: avrei preso lo stesso almeno 500 grammi di medicine e le crisi sarebbero tornate. Ma il professore che avevo conosciuto era un luminare e avrei corso il rischio. La sorte ha voluto che 10 gior­ni prima dell’operazione questo dottore è morto. Non mi sono fatto più operare, l’ho preso come un segno del destino».