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IL CASO. Soli con Facebook nella stanza degli echi

Chiara Giaccardi giovedì 16 agosto 2012
Il 3 agosto la Stanford Encyclopedia of Philosophy, punto di riferimento autorevole e aggiornato per studiosi di diverse discipline, ha pubblicato la voce «Social networking and ethics>». Fatto che ha almeno due significati importanti. Il primo: se una questione assurge alla dignità di trattazione in un ambito tendenzialmente immune dalle mode, significa che la sua rilevanza non può essere sottovalutata. E il secondo: estendere la riflessione etica all’ambito dei social network significa optare per una visione antidualistica. I contesti sociali fisici e quelli smaterializzati del Web non sono spazi paralleli o antagonisti, ma territori contigui, intrecciati e stratificati, di un unico spazio di esperienza sempre più «misto». I rischi non mancano, ma sono forse legati più alla vita sociale in quanto tale che al Web, dato che – Goffman insegna e Pirandello prima di lui – in pubblico tendiamo comunque a «recitare una parte». Come si legge nella voce in questione, nella prima decade del XXI secolo i social media «hanno iniziato a trasformare le pratiche sociali, politiche e comunicative di individui e istituzioni a livello planetario». È dunque urgente «il bisogno di attenzione a questo fenomeno, che sta ridando forma al modo in cui gli esseri umani iniziano e/o mantengono praticamente qualunque tipo di legame o ruolo sociale eticamente significativo: amico-amico, genitore-figlio, collega-collega, insegnante-alunno, venditore-acquirente, medico-paziente, solo per fornire una lista parziale». Con lo sviluppo della tecnologia, e in particolare dei dispositivi per la connessione in mobilità (gli smart phones) il problema non è più quello della mancanza della corporeità, dato che i social network, grazie anche alle nuove applicazioni di geo-localizzazione, agevolano «l’incontro fisico tra persone in modi prima impensabili»: a un’intensa vita sociale online corrisponde oggi una socialità viva anche offline. La questione riguarda piuttosto la qualità delle relazioni. In particolare il testo mette a fuoco alcuni nodi eticamente cruciali: privacy, identità, amicizia, vita buona e libertà democratica. La privacy è una questione ancora più complessa di quanto non appaia: riguarda infatti l’accesso, il controllo, la contestualizzazione delle informazioni. Non sempre gli utenti sono pienamente consapevoli delle conseguenze del condividere informazioni e di come possano essere usate fuori dal contesto in cui sono scambiate. D’altra parte la privacy non può essere ridotta alla «protezione dell’ambito privato dall’esposizione pubblica, ma deve anche aver cura di proteggere la sfera pubblica da un’eccessiva intrusione del privato». Rispetto all’identità, l’online offre possibilità di «management del sé» particolarmente accurato. E questo pone non tanto problemi di verità (sui social network normalmente si entra con la propria identità), quanto di coerenza: se il sé online è più marcatamente «riflessivo e aspirazionale», qual è il rapporto tra le aspirazioni e la realtà? Tra ciò che ci piacerebbe gli altri vedessero e ciò che siamo? C’è differenza nelle aspirazioni di chi frequenta assiduamente i social network e chi no? Tra i possibili rischi, l’effetto «stanza degli echi»: ci si espone solo alle informazioni, e alle persone, che ci somigliano e che la pensano come noi, creando dei «silos comunicativi» impermeabili al pluralismo e incubatoi di riduzioni, pregiudizi, stereotipi, o in grado di offrire rinforzo a tendenze deliranti e distruttive (come «i siti Pro-Ana, che forniscono sostegno reciproco a persone anoressiche in cerca di informazioni e strumenti per perpetuare e difendere le proprie identità disordinate»). O quello di una passività identitaria, dove la griglia di costruzione del profilo e il criterio di validazione basato «sull’economia morale ristretta» della popolarità diventano vere e proprie «tecnologie del sé». A favore dei nuovi sviluppi di Facebook si osserva che Timeline (la ricostruzione storica della propria biografia online) se da un lato consente di farsi «registi» del proprio passato, con tagli strategici, dall’altro contrasta la smemoratezza esistenziale, «incorporando nella rappresentazione di sé scelte, pensieri e azioni che altrimenti avrebbero potuto convenientemente essere dimenticati»: contro il gioco delle identità sempre nuove emerge che il passato è parte costitutiva del presente, e ne definisce l’unicità. Il controllo del proprio profilo non impedisce dunque l’autenticità. Caso mai, un «sé spalmato» su molteplici contesti on e offline rischia perdita di coerenza, crisi di autonomia e delle condizioni di riflessività che garantiscono l’esercizio della libertà democratica. Qui la questione è ancora aperta: i social network promuovono un’interattività favorevole al libero esercizio della discussione pubblica, o piuttosto un’«interpassività», un’occasionale condivisione di materiali privi di valore, una confusione tra partecipazione e adesione poco impegnativa, come cliccare un like? La risposta ancora non c’è, anche se la Rete offre, in modo spesso inaspettato, accessi anche casuali a varietà di testi, posizioni, notizie difficili da incontrare altrimenti. Esposizione non significa di per sé attenzione, e tanto meno riflessione. Ma posso dire di aver saputo di questa voce della Stanford Encyclopedia da un post su Twitter.