Agorà

Intervista. Soleri: «Arlecchino, il mio povero Cristo»

Angela Calvini martedì 17 dicembre 2013
«Arlecchino è diventato il simbolo di quello che dovrebbe essere sempre il grande teatro, uno strumento per esaltare la fraternità e l’unicità degli uomini». Parola di Giorgio Strehler, che oltre 60 anni fa, metteva in scena per la prima volta l’eroe multicolore dell’Italia povera del Dopoguerra, ma piena di vita e di voglia di rinascere. Era il 24 luglio del 1947 e sul palcoscenico del Piccolo Teatro di via Rovello nuovo di zecca, faceva la sua apparizione Arlecchino servitore di due padroni di Goldoni, uno spettacolo destinato a battere tutti i record: oltre 2.800 recite  e due milioni di spettatori, 215 città e 43 Paesi attraversati, dal lontano 1947. All’epoca sotto l’abito a pezze colorate e la maschera nera si celava Marcello Moretti, il primo Arlecchino (cui si affiancò l’attrice Lydia Alfonsi), che farà crescere la simpatica maschera per 14 anni, applaudito dal pubblico e dalla critica internazionale, fino alla prematura scomparsa a 50 anni nel 1961. Da allora il testimone è passato a un mito vivente del teatro, l’84enne Ferruccio Soleri, da 53 anni Arlecchino indiscusso, che sino al 22 dicembre sarà in scena nella sua “casa”, il Piccolo Teatro Grassi. Ferruccio Soleri nel 2010 è stato insignito del “Guinness World Record” per la “più lunga performance di teatro nello stesso ruolo”. Non le è mai venuta voglia di cambiare?«E perché mai? Amo profondamente Arlecchino e ogni sera, anche in questi giorni a Milano, è un successo. Il segreto è la regia di Strehler che è straordinaria: ha allestito uno spettacolo al di là del tempo e della storia, una messa in scena vitale che è emblema delle nostre vite e non tramonta mai. Ogni tanto qualcuno tenta di proporre un Arlecchino diverso, ma secondo me, è inutile cambiare. Così è perfetto».Anche se Arlecchino tanto perfetto non è. Per lei, che è diventato il suo alter ego, chi è veramente?«È un povero Cristo che ha sempre fame, che usa l’arte di arrangiarsi per sopravvivere. Ma non come oggi, che si ingannano gli altri. Lui è uno leale, usa l’astuzia solo quando ha fame. Ma è un ingenuo, amante della fantasia. No, oggi Arlecchino non potrebbe proprio sopravvivere».Quanto è difficile dargli vita?«Per un attore interpretarlo non è semplice. Non tanto per la storia che è molto lineare, ma perché indossando una maschera che copre il viso, bisogna trovare altri modi per esprimere i sentimenti. I sentimenti passano attraverso la mimica e i toni della voce più accentuati».In scena lei ancora salta, fa capriole, corre avanti e indietro come un ragazzo. In tanti le chiederanno stupiti come fa.«Sono felice di farlo, finché ci riesco. Innanzitutto devo ringraziare il buon Dio e i miei genitori che mi hanno fatto così. Poi io mi alleno tutti i giorni, facendo quattro piani di corsa due volte al giorno e 40 minuti di stretching. E poi ci vuole amore. Nella nostra professione non ci si può annoiare, perché c’è tanta vivacità tutte le sere». Con questa sua vivacità lei è anche l’idolo dei bambini.«Oh, ma certo. Ho fatto tanti spettacoli per le scuole, ho incontrato migliaia di bambini in tutto il mondo. Arlecchino piace perché è uno spettacolo semplice, con molta mimica, i bambini ridono come pazzi. Anche i miei tre nipotini. Una è già venuta tre volte a vedermi».E le altre maschere che circondano il nostro Arlecchino, cosa rappresentano dell’oggi?«Pantalone esiste ancora, l’avaro ricco che adora il denaro, come pure il dottore Ballanzone che è il falso intellettuale, per non parlare di Brighella che si da fare per ottenere tutto, con tutti i mezzi. Oggi ci sono più Brighella che Arlecchini». Ricorda come arrivò al ruolo della sua vita?«Mentre frequentavo l’Accademia d’arte drammatica di Roma, il mio maestro Orazio Costa dopo due mesi mi disse: “Tu sei Arlecchino. “Ma come – risposi – lui è veneto, io sono fiorentino”. Mi diede il ruolo ne La figlia obbediente di Goldoni dicendo di non preoccuparmi perché accanto avrei avuto un grande attore veneto come Gastone Moschin. Alla prova generale venne Moretti, allora Arlecchino per Strehler, e ne rimase bene impressionato tantoché mi segnalò al maestro. Due anni dopo, volai con la compagnia in America per la tournée di Arlecchino servitore di due padroni. Strehler mi prese come camerierino, e dietro le quinte studiavo come recitava Moretti e imparavo. Il mio debutto come sostituto fu nel 1961 al “City Center Theatre” di New York. Un’emozione che no  dimenticherò mai». E da allora lei ha continuato a girare il mondo«Ho fatto davvero il giro del mondo, sono stato persino in Australia. I più grandi successi? In Cina, Giappone e Corea, perché questo teatro era lontano dalla loro cultura, ma riuscivano a capire lo stesso e ne rimanevano entusiasti. Arlecchino è riuscito persino a superare le barriere politiche, perché la politica, per lui, lui non esiste». Il complimento più bello che ha ricevuto?«Quando a Londra venne in camerino il più grande attore di tutti i tempi, Lawrence Olivier e mi disse: “Come avrei voluto essere lei stasera”. “E no, io avrei voluto essere lei” gli risposi».Sceso dal palco, come passerà questo Natale Ferruccio Soleri?«Come ogni buon cristiano a Messa e con la propria famiglia».E quale augurio fa Arlecchino per Natale?«Arlecchino augura che tutto mondo sia felice e possa mangiare».