Agorà

Mass media. La miccia «social» delle guerre moderne

Riccardo Michelucci giovedì 7 giugno 2018

Anna Sandalova ha partecipato alla guerra del Donbass, nell’Ucraina orientale, armata soltanto di un computer portatile e di un profilo Facebook. Ha creato un gruppo di sostenitori dell’esercito di Kiev, si è fatta mandare l’elenco dei materiali necessari alle forze anti-separatiste e in breve tempo ha raccolto su internet oltre 1,3 milioni di dollari con i quali ha acquistato approvvigionamenti per i soldati, uniformi, attrezzature, persino un’ambulanza. Con l’aiuto del suo smartphone, la sedicenne palestinese Farah Baker è riuscita a raccontare su Twitter i 51 giorni della “terza guerra di Gaza”, nel-l’estate del 2014. Quando l’aviazione israeliana ha colpito l’unica centrale elettrica della Striscia facendo saltare la corrente, ha usato un generatore di proprietà della sua famiglia. Il suo hashtag #GazaUnderAttack è diventato virale fino ad attirare l’attenzione dei mezzi di informazione di tutto il mondo. Da sola, senza alcuna organizzazione alle spalle, è stata capace di sconfiggere Israele nella guerra dell’informazione perché l’autenticità dei suoi tweet si è rivelata imbattibile anche per i mezzi più sofisticati dell’esercito israeliano. Anna e Farah sono due delle persone intervistate da David Patrikarakos, giornalista del Guardian, nel suo libro- inchiesta War in 140 Characters: How Social Media is Reshaping Conflict in the Twenty-First Century, che racconta come il web 2.0 ha ormai aperto la strada alla “guerra 2.0”, dove le connessioni internet e l’utilizzo dei social network hanno preso il posto delle bombe e dei carri armati. Un conflitto ibrido lontano anni luce dalle teorie di Von Clausewitz, la cui dimensione narrativa ormai prevale spesso su quella fisica. «La forza dell’homo digitalis si è rivelata per la prima volta con le primavere arabe, spostando le gerarchie di potere a favore dei cittadini - ci spiega Patrikarakos oggi chi usa Facebook, Twitter, WhatsApp e strumenti simili può avere un impatto superiore a quel- lo delle istituzioni, facendo proseliti, arruolando volontari, raccogliendo fondi per le truppe, persino condizionando risultati elettorali».

Chiunque, con un pc e una connessione a internet, può diventare un “soldato”, o finire coinvolto in un conflitto a sua insaputa, come racconta nel suo libro. È il caso del giornalista russo Vitaly Bespalov, che dopo aver perso il lavoro fu incaricato da una società di San Pietroburgo di inondare la rete di fake news e contenuti anti-Nato, anti-Obama e anti-Ucraina. Senza rendersene conto era stato reclutato da una fabbrica di “troll” dell’esercito russo: il suo lavoro doveva servire a confondere, a occultare e a seminare panico nel tentativo di scatenare una guerra civile in Ucraina. Quasi una rivisitazione russa del Ministero della Verità descritto da George Orwell in 1984. Nel corso della sua inchiesta, Patrikarakos sostiene di essersi trovato in mezzo a due conflitti: uno combattuto sul campo con armi tradizionali, l’altro con gli strumenti informatici e i social-media. E di aver compreso che spesso è il secondo quello più importante. Un altro fronte delle guerre 2.0 è rappresentato dalle campagne di disinformazione per condizionare i risultati elettorali: un recente rapporto dell’Ong statunitense Freedom House, impegnata in attività di ricerca sulla democrazia e le libertà politiche, afferma che i governi di almeno trenta paesi nel mondo hanno reclutato veri e propri eserciti incaricati di manipolare l’opinione pubblica e contrastare il dissenso creando account automatizzati e siti di propaganda, e sfruttando al massimo le potenzialità dei social bot, i programmi che producono messaggi che si retwittano da soli per diffondere i propri contenuti.

Sia in Turchia che nelle Filippine, migliaia di persone lavorano giorno e notte per contrastare gli oppositori di Erdogan e Duterte, facendo circolare milioni di hashtag filo-governativi e falsi commenti per dare l’impressione di un forte sostegno popolare per i due dittatori. In Messico è stato persino coniato un termine, Peñabots, ovvero i programmi automatici che simulando di essere utenti cercano parole chiave molto popolari e poi generano contenuti favorevoli al governo di Enrique Peña Nieto. Secondo lo stesso rapporto, nel corso dell’ultimo anno almeno diciotto governi avrebbero anche condizionato i risultati elettorali usando strumenti informatici simili. «La storia ci insegna che spesso le evoluzioni tecnologiche sono state seguite da periodi di grande instabilità», ammonisce Patrikarakos. «L’invenzione della stampa a caratteri mobili nel XV secolo portò alle guerre di religione in Europa, gli anni ’20 del ’900 videro la diffusione di massa della radio, che divenne anche uno strumento per i demagoghi, e di lì a poco scoppiò la Seconda guerra mondiale».

Ma non tutte le storie raccontate nel libro lasciano spazio a scenari catastrofisti. Il blogger britannico Eliot Higgins è riuscito a smascherare la propaganda russa sull’aereo civile malese che fu abbattuto in Ucraina il 17 luglio 2014, con 298 persone a bordo. Soltanto con il suo pc, senza lasciare il salotto di casa, ha analizzato le foto pubblicate sui social media ed è stato capace di dimostrare che la causa dell’incidente fu un missile lanciato da una contraerea russa. «Fino a pochi anni fa - conclude Patrikarakos - soltanto la Cia sarebbe stata in grado di rivelare un fatto simile. Con gli strumenti odierni chiunque può monitorare le rotte dei voli, geolocalizzare, effettuare traduzioni istantanee. I social-media possono essere usati per ingannare ma anche per scoprire la verità».