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Grandi mostre. Singolar tenzone a Mantova per Pisanello

Maurizio Cecchetti venerdì 4 novembre 2022

Un particolare dell'affresco di Pisanello nel Palazzo Ducale di Mantova che raffigura un Torneo cavalleresco

Il 1996 fu, per così dire, un anno pisanelliano. Grazie a una sinergia fra Louvre e Museo di Castelvecchio, Pisanello venne celebrato a Parigi per quattro mesi nella mostra Le peintre aux sept vertue, curata da Dominique Cordellier e da Paola Marini, direttrice del museo veronese che poi allestì una mostra molto simile per altri tre mesi. Per il Louvre fu anche l’occasione per una preventiva campagna di restauri, in particolare dei meravigliosi disegni dell’artista, collezione di cui oggi nel Palazzo Ducale di Mantova abbiamo qualche assaggio prestato dal museo francese per la mostra che presenta la nuova sistemazione dei grandi dipinti murali ritrovati poco più di mezzo secolo fa dal soprintendente Giovanni Paccagnini, che già aveva curato nel 1961 la grande mostra del Mantegna e anche i restauri di Palazzo Te.

Nonostante la silente fragilità che può avere un’opera superstite riemersa a metà degli anni Sessanta del Novecento dopo secoli di latitanza da sotto diversi strati d’intonaco, ciò che si respira entrando nella sala di Palazzo Ducale col nuovo allestimento per gli affreschi di Pisanello che raffigurano un torneo cavalleresco (il progetto espositivo è curato dall’attuale direttore, Stefano L’Occaso), è l’atmosfera brutale, caotica, di scontro fisico senza esclusione di colpi, che ti penetra nel naso con le polveri e i sentori di sangue e sudore dei guerrieri che si affrontano nella lotta, con una durezza da giocatori di rugby o di football americano; mentre osservi le singole scene, ti viene il sospetto che sia una tragica presa in giro sulla vanità eroica del tema, sia pure dipinta per il marchese Gonzaga, Gianfrancesco. Insomma, vista oggi vi si coglie una franante critica della guerra, del mestiere delle armi, ironia seria, senza la retorica hollywoodiana che s’insinua nella strabiliante verità con cui vengono a noi le immagini nei primi venti minuti del Gladiatore, riassunte nell’ormai celebre esortazione del generale romano interpretato da Russell Crowe: «Al mio segnale scatenate l’inferno».

L'affresco del Torneo cavalleresco di Pisanello nel palazzo Ducale di Mantova - / Foto Ghigo Roli

Nell’affresco di Pisanello, ritrovato a metà degli anni 60 dopo lunghe indagini per individuare i muri e la stanza dove l’artista aveva dipinto il ciclo cavalleresco (poi sottoposto a vari anni di lavoro per il recupero, ma presentato pubblicamente soltanto nel 1972), l’inferno si svela nella singolare macchina rappresentativa dove la scena è un convulso vortice di cavalieri che si scontrano e al tempo stesso mancano di parti, hanno armi spuntate, si ribaltano su se stessi sfiorando l’incoerenza del senso. Paccagnini scriveva all’epoca che l’insieme era «non meno essenziale di quello costituito dalla notissima decorazione realizzata dal Mantegna nella Camera degli Sposi». E aggiungeva: «dopo cinque secoli dalla scomparsa della “Sala del Pisanello”». L’emozione era dettata anche dall’esiguo numero di documenti del 1480 dove si parla di quella stanza, dunque postumi di qualche decennio alla morte dell’artista.

Argomenti che L’Occaso ripercorre sia nelle cronologie dell’epoca e sia in quelle del ritrovamento. Del resto, Paccagnini non dimenticava di sottolineare che, nella sua frammentarietà e incompiutezza – ma con sinopie «bellissime e non meno pittoriche degli affreschi» – questo ciclo cavalleresco «è la più importante impresa pittorica pervenutaci dell’artista». L’opera che sigilla, per così dire, l’immagine di Pisanello quale “pittore di corte”. E dici poco. Il saggio che Andrea De Marchi ha scritto per il catalogo edito da Electa a corredo della mostra Il tumulto del mondo (fino all'8 gennaio) che supporta il riallestimento della “Sala del Pisanello”, sottolinea l’“illusione panottica” del ciclo – illusione che ritorna anche altrove nel Palazzo, per esempio negli arazzi di identico tema cavalleresco –, il cui movimento avvolgente richiama, secondo lo storico, le nostre esposizioni immersive rese possibili dalla tecnologia.

Un particolare dell'affresco di Pisanello nel Palazzo Ducale di Mantova che raffigura un Torneo cavalleresco - / Foto Ghigo Roli

Ma è altro che colpisce e De Marchi lo scrive assai bene: il torneo di Pisanello «non ha un luogo delimitato, si propaga in tutte le direzioni, e in esso regna apparentemente una caotica commistione, per cui si fatica anche a capire chi si stia battendo e contro chi, cavalcando alla lancia o nel corpo a corpo alla spada»; lo studioso riprende una osservazione già formulata da Ilaria Molteni nel 2020, quando scriveva che «l’abbondanza e la varietà degli elementi figurativi, nonché la molteplicità di punti di vista adottati, fanno sì che sia impossibile avere una comprensione della scena a primo colpo d’occhio». Si deve tener conto, aggiunge De Marchi, che quanto vediamo, a causa di «lacune, incompiutezze e alterazioni, è più frammentario di come doveva essere in origine».

Si allude, con lacune, a un non finito che non è sinonimo di incompiuto volontario ma di abbandono necessitato dagli eventi dunque non nel senso che gli diamo noi moderni (Pisanello lavorava al Laterano a Roma, e rientrò in gran fretta quando venne annunciata la visita del re boemo incoronato imperatore a Roma nel 1433). Per alterazioni si fa riferimento a imprevisti come il crollo di soffitti, ovvero le trasformazioni subite nei secoli dal Palazzo e dai muri delle singole stanze, coperti da strati d’intonaco, l’ultimo che accolse una serie di medaglioni dei Gonzaga di epoca settecentesca da sotto i quali Paccagnini intuì le tracce che portarono al ritrovamento di mezzo secolo fa. Eppure se si osserva la sinopia rinvenuta sotto l’affresco e strappata pure essa, le figure di cavalieri lanciati nella tenzone sono più definiti di quanto poi non vediamo nel dipinto, ma anche la spazialità subisce cambi di proporzioni che, secondo De Marchi, fanno pensare a come Pisanello dovette chiarirsi le idee in corso d’opera.

Ma se l’ispirazione gli venne dal Lancelot du Lac (Pisanello era piuttosto colto anche in materia letteraria) egli rende tutto con una forza che va ben oltre il tema cortese cavalleresco: «Raramente in pittura è stata avviata una riflessione così deflagrante sulla violenza umana e l’ambientazione accidentata, sommossa al suo interno da tensioni contraddittorie». Si potrebbe ritrovare in questo una poetica drammatica del sentimento, quello che provano in una battaglia uomini e animali a contatto coi loro corpi: la dilatazione degli organi nello sforzo, la tensione dei muscoli e i cuori che impazzano, in una sinestesia reale quanto immaginaria. De Marchi conclude dicendo che Pisanello perseguì «consapevolmente la sfida di rendere i rumori stessi» in concorrenza, diremmo oggi, con l’ecfrasi letteraria. In realtà, credo che questo convulso torneo sia effettivamente una rappresentazione del caos – la cui intenzionalità è ben diversa dal coacervo di lance e spade e dallo stiparsi di uomini e cavalli nelle battaglie dipinte da Paolo Uccello – perché per Pisanello il mestiere delle armi, l’uso della forza, erano la gloria ma anche la debolezza degli eroi che in guerra, fin dalle tragedie omeriche, versano il sangue del nemico e piangono i figli o i padri uccisi, ovvero gli amici, vittime anche del fato.

Quel groviglio che oggi ci lascia meravigliati per la capacità di immaginare scenari così complessi, indica in questo groviglio di carne, corazze, armi l’estrema vanità del potere e la sua mitologia. Visione che ritroviamo in quell’immagine lontana compresa nell’affresco di San Giorgio e la Principessa a Sant’Anastasia, sia pure come esempio di stipendium per il male compiuto, quello dei due impiccati al cui studio Pisanello dedicò alcuni disegni mirabili ancor più struggenti perché nel dettaglio svelano, oltre il realismo della rappresentazione, la partecipazione al dramma umano, dove per un artista non si tratta di cercare vinti e vincitori ma di rendere il senso comune di una sconfitta anche nella vittoria e nella giustizia.

In mostra a corredo temporaneo del nuovo allestimento, il cui punto qualificante è una pedana che alza di 119 centimetri il punto di vista, portandolo a quello dell’appartamento di Guastalla confinante – come sottolinea L’Occaso, «l’intonaco spatolato sottostante suggerisce una lettura delle pitture pisanelliane come fregio, mentre forse esse scendevano fino a terra») –, s’aggiungono pochi sceltissimi disegni, fra cui, provenienti da Parigi, lo splendido Cavaliere estense come falconiere dal cappello vistoso e un raffinato mantello, e attorno a lui la muta dei cani (Pisanello, come Giovannino de’ Grassi, fu un virtuoso disegnatore di animali), dettagli che ne fanno un saggio di bravura inarrivabile; a cui si affianca il Profilo di Sigismondo di Lussemburgo, che venne in visita a Mantova nel 1433 e fu, come sostenne Alessandro Conti e oggi ribadisce Andrea De Marchi, la probabile ragione del rapido completamento dell’allestimento iniziato qualche anno prima da Pisanello.

A questo grande dipinto murale, cui fa pendant la sinopia ritrovata sotto l’affresco strappato, si affiancano le medaglie di Filippo Maria Visconti e dei Gonzaga Gianfrancesco, Ludovico II e Cecilia, un frammento di dipinto murale che raffigura nel più puro stile pisanneliano una testa di donna, il cui sguardo assorto e pensoso fonde la vena malinconica con la dolcezza dello stile cortese, a cui si riallaccia, del resto, la prima opera esposta, la Madonna della quaglia, opera che cela una varietà di simbologie più o meno segrete. Alcuni dipinti di Niccolò di Pietro e Stefano di Giovanni da Verona, e sculture di Filippo di Domenico da Venezia, Jacopino da Tradate e Michele dello Scalcago oltre a esempi di miniatori mantovani offrono un contesto, per la verità, utile più agli studiosi che al visitatore comune.