Agorà

CALTANISSETTA. Piccoli «Ciàula» in miniera

Alessandra Turrisi venerdì 12 marzo 2010
Sembra quasi di vederli quei "carusi" siciliani di otto-nove anni, con le gambe storte e le spalle curve sotto il peso di canestri pieni di roccia mista a zolfo, mezzi avvelenati dalle esalazioni, arrampicarsi per chilometri tra ripide salite e scalinate incavate nella roccia. Migliaia di «Ciàula» che per duecento anni rappresentarono la fortuna economica dell’entroterra siciliano e non videro mai la luna, come il protagonista della novella di Pirandello. Sono loro i protagonisti di un mondo scomparso da mezzo secolo e che tornerà a vivere grazie al Museo delle solfare di Trabia Tallarita. Dopo sei anni di lavoro e un investimento di oltre 5 milioni e mezzo di euro, la Soprintendenza ai beni culturali di Caltanissetta, diretta da Rosalba Panvini, ha restituito al pubblico uno straordinario esempio di archeologia industriale che si estende per circa seimila metri quadrati. La Regione siciliana, dieci anni fa, ha acquisito al proprio demanio questo bene etno-antropologico, per recuperare i complessi esistenti, con gli annessi edifici industriali che ancora si conservano, i macchinari e le attrezzature utilizzate per la lavorazione del minerale. Il vasto altopiano gessoso-solfifero, tra i più grandi d’Europa, per anni disabitato e lasciato in stato di abbandono, è stato valorizzato per ricordare e fruire di un patrimonio universale, «dove la storia del genere umano s’intreccia con la storia della sua terra e delle sue ricchezze - spiega Rosalba Panvini - dove la fatica degli uomini si è profondamente intersecata con lo sviluppo e l’evoluzione della società».Nei giorni scorsi il taglio del nastro del primo lotto di lavori che ha consentito la realizzazione del museo nell’edificio dell’ex centrale elettrica Palladio. Si tratta di uno spazio didattico-multimediale, unico in Sicilia, dove gli esperti, coordinati dal direttore dei lavori Alessandro Ferrara, responsabile del servizio per i Beni architettonici della Soprintendenza, hanno ricostruito i vari aspetti dell’attività delle miniere di zolfo: dalle strutture edili a quelle industriali, alla vita degli uomini impiegati nelle varie fasi della lavorazione. Il visitatore potrà guardare, ascoltare, respirare momenti della vita dei minatori, grazie a ricostruzioni tridimensionali. «È la creazione di un polo culturale e turistico attorno al bacino solfifero più importante della Sicilia - sottolinea il direttore dei lavori -, in cui la storia e i tanti volti anonimi che hanno segnato o sono stati segnati da questi luoghi, vadano idealmente scolpiti a futura memoria».Nel plesso sarà anche possibile visitare installazioni contemporanee di artisti siciliani, la mostra di pitture sul tema, la mostra fotografica "Sùlfaro e sulfatari", il Salone della "truscitella" con prodotti enogastronomici locali e una collezione di rari minerali. Il tutto accompagnato da cantastorie che racconteranno la vita nelle miniere, tratta anche dai versi di Ignazio Buttitta, poeti ed ex "carusi" che testimonieranno il duro lavoro dello zolfataro, segnato da toccanti e tragiche vicende umane. Una sorta di macchina del tempo, propedeutica all’avvio di un distretto minerario della Regione siciliana, fra Sommatino, Riesi e tutto il Nisseno, capace di recuperare, valorizzare e mettere in rete l’ingente patrimonio del sottosuolo siciliano, per la nascita di un circuito turistico intorno al ciclo dell’industria siciliana dello zolfo dalla fine del Settecento alla seconda metà del Novecento. Questo importante aspetto dell’economia della Sicilia centro-meridionale raggiunse il momento di massima espansione attorno al passaggio tra il XIX e il XX secolo. Basti pensare che nel 1901 risultavano occupati nel settore 38.922 individui, mentre nel 1905 in Sicilia si estrassero 536.782 tonnellate di zolfo, pari al 91% di tutta la produzione mondiale. Una realtà industriale significativa poi colpita da una crisi irreversibile, che ha determinato contestualmente la cessazione di ogni attività lavorativa e l’abbandono traumatico di un patrimonio ingente, i cui "segni" persistono ancora oggi, riconoscibili nelle strutture obsolete degli impianti dei bacini minerari.