Agorà

IL CASO. Shoah, ebrei salvi nelle Filippine

Giorgio Bernardelli giovedì 18 giugno 2009
Tre porte spalancate, di dimensioni tra loro diverse. Tre porte che in un gioco di forme geometriche intrecciate, vanno a comporre tanto il triangolo della bandiera filippina quanto la stella di Davide della bandiera israeliana. Si presenta così Open Doors, un nuovo monumento che verrà inaugurato domenica 21 giugno nel Memorial Park di Rishon LeZion, la quarta maggiore città israeliana (e che si trova all’interno della grande area metropolitana di Tel Aviv). Si tratta di un avvenimento in qualche modo storico: per la prima volta, infatti, un segno ricorderà in Israele l’ospitalità offerta dalle Filippine a un migliaio di ebrei in fuga dalla Germania nazista. È una delle tante pagine sconosciute del grande dramma della Shoah. Dimenticata da tutti tranne che da quanti nell’arcipelago dell’Estremo Oriente trovarono ­appunto - una porta aperta negli anni della persecuzione nazista. Ed è una storia che, per essere compresa fino in fondo, va collocata nel contesto degli anni Trenta, con la tragedia delle tante altre porte chiuse che gli ebrei desiderosi di fuggire dalla Germania trovarono davanti a sé. Il caso più famoso fu quello degli Stati Uniti, che a partire dagli anni Venti avevano drasticamente cambiato politica sul tema dell’immigrazione, restringendo in maniera molto pesante gli ingressi. Ebbene, proprio in quegli anni ci fu un Paese cattolico sotto protettorato americano che gli ebrei si offrì invece di accoglierli. E - dopo il nulla di fatto della conferenza di Evian, nell’estate del 1938 - il suo presidente Manuel Quezon diede la disponibilità ad accogliere almeno diecimila ebrei, offrendo loro la possibilità di stabilirsi a Mindanao, la grande isola del Sud delle Filippine. In una terra - dicevano a Manila - ben più fertile della Palestina. Non si trattava di un’idea del tutto disinteressata: già dagli anni Venti era iniziata la colonizzazione di Mindanao, con lo spostamento di migliaia di contadini filippini dalle altre due grandi isole di Luzon e Visayas, ritenute sovrappopolate. L’operazione, però, aveva subito innescato tensioni con le locali popolazioni Moro, di religione musulmana. In pratica stava iniziando il conflitto che tuttora perdura a Mindanao e probabilmente Quezon pensava alla presenza degli ebrei come a un elemento che avrebbe potuto dargli una mano in chiave anti-islamica. L’idea trovò comunque titubante il Dipartimento di Stato americano, sotto la cui longa manus le Filippine allora si trovavano. Lo studio tecnico di fattibilità dell’operazione andò avanti per mesi, finché arrivò l’attacco giapponese a Pearl Harbour e l’opzione Mindanao per il salvataggio degli ebrei finì negli archivi. A Manila, però, nel frattempo le porte si erano aperte per davvero. Grazie all’impegno della piccola comunità ebraica locale, che poté contare sull’appoggio del presidente Quezon. Il 17 novembre 1938 alcune centinaia di filippini si riunirono a Manila per manifestare il proprio sdegno di fronte alle notizie giunte dalla Germania sulla 'Notte dei cristalli'. E alla fine furono circa 1.200 i profughi ebrei che trovarono realmente ospitalità nella capitale filippina. Tra di loro c’era anche il berlinese Frank Ephraim che nel 1939 aveva soli otto anni: è stato lui nel 2003 a ricostruire tutta la vicenda, in un libro intitolato Escape to Manila ('Fuga a Manila'). Quello delle Filippine non fu comunque un rifugio tranquillo per gli ebrei: nel corso della guerra Manila avrebbe poi conosciuto l’invasione giapponese. E ci furono anche 67 profughi ebrei tra i 100 mila abitanti della città che rimasero uccisi durante i massicci bombardamenti aerei americani che precedettero la liberazione (la stessa sinagoga venne distrutta). Degli ebrei salvati a Manila finora non c’era traccia allo Yad Vashem, il museo della Shoah a Gerusalemme. Nessun filippino figura nell’elenco dei Giusti tra le nazioni (attualmente sono circa 22.700 di 44 Paesi diversi). Non per una questione di cattiva volontà, ma per una regione 'tecnica': il titolo di Giusto tra le nazioni è assegnato a coloro che misero a repentaglio la propria vita per salvare quella degli ebrei. Nel caso delle Filippine, invece, nessuno corse dei rischi personali. Ciò non toglie, però, che il gesto di solidarietà ci fu. Così, alla fine, il sindaco di Rishon LeZion ha scelto di ricordarlo con il monumento che verrà inaugurato nel locale Giardino della memoria. Un segno che parlerà anche dei profondi legami di amicizia che uniscono tra loro Israele e le Filippine. Le relazioni diplomatiche risalgono infatti al 1957; ma già dieci anni prima Manila era stato l’unico Paese asiatico a votare a favore della nascita dello Stato d’Israele nella famosa votazione all’Onu del novembre 1947. Oggi, però, questo legame ha anche un nuovo volto: quello dei circa 40 mila lavoratori filippini portati in Israele dalle nuove frontiere del mercato del lavoro globalizzato. Una presenza che - proprio nell’area metropolitana di Tel Aviv ­è molto forte, tra badanti per gli anziani e inservienti dei grandi alberghi della costa. Non senza, però, alcuni problemi: la legislazione israeliana considera i lavoratori immigrati un fatto solo temporaneo e di conseguenza prevede un tetto massimo di cinque anni e tre mesi per il rinnovo dei permessi di soggiorno. Una condizione, questa, che rende di fatto impossibile a un immigrato costruirsi una famiglia nel Paese che lo ospita. La speranza è che il monumento ai filippini che settant’anni fa accolsero gli ebrei in fuga, aiuti Israele a pensare anche a chi - per ragioni diverse - una porta un po’ più aperta la sta cercando adesso. Un gruppo di rifugiati ebrei a Manila nel 1940. Sotto l’allora presidente filippino Manuel Quezon