Agorà

Cinema. Lo Shakespeare di Branagh: il «Racconto d'inverno»

Roberto Mussapi domenica 16 ottobre 2016
Martedì e mercoledì 18 e 19 ottobre accadrà qualcosa di straordinario: in Italia vedremo un capolavoro di Shakespeare, Il racconto d’inverno, firmato Kenneth Branagh, per la prima volta. Una diretta per chi non è stato a Londra, dove lo spettacolo è stato realizzato, e poi mai visto nel mondo.È come se il Globe, il mitico teatro di Shakespeare, grazie a una tecnologia a quel tempo inesistente, apparisse per la prima al resto del mondo. Mistero, miracolo del cinema, potremmo dire, anche perché questo spettacolo non sarà l’unico, ma lo seguirà Romeo e Giulietta, la più grande storia d’amore di tutti i tempi. Qualcosa di straordinario, sottintendendo una condizione: che noi, al cinema, assistiamo a uno “spettacolo di teatro”, e non a una rappresentazione teatrale filmata. Il filmato di uno spettacolo teatrale è, quasi sempre, pari a quello di una partita di calcio: non accade nulla, tutto è già avvenuto. Il teatro è divenire, vivere e morire all’unisono con Ofelia e Romeo Montecchi, piangere nelle lacrime e nei singhiozzi di Ofelia, che sta singhiozzando, viva, davanti a noi e in noi, sulla scena. Il cinema è astrazione platonica di una storia: accade quando è proiettato, nulla freme di carne e sangue, sullo schermo. Mastroianni è già morto, ma La dolce vita è la stessa.Fare teatro riprendendo uno spettacolo, è impresa ardua. Kenneth Branagh è in tal genere espressivo divenuto il fondatore, il maestro: certo, prima di lui abbiamo Orson Welles, Lawrence Olivier, non poco teatro shakespeariano filmato: che resta, appunto, teatro filmato. Nobile, ma primitivo: come i film di Murnau e Lang rispetto al Settimo Sigillo di Bergman. Branagh ha reso vivente come il teatro il suo cinema teatrale. Il teatro è vita pulsante, il cinema film, pellicola, immagine. Eppure, ci svela Branagh, sono due affini proiezioni dell’invisibile.Quando Amleto fa il suo ingresso sulla scena del Globe e del mondo, nel 1601, per non uscirne mai più, il pubblico dell’età elisabettiana è avvezzo all’invisibile. È abituato alle apparizioni, si reca a teatro esclusivamente per vedere apparizioni, assiste allo spettacolo perché, crede alla verità dello spettacolo. Il cinema è la quintessenza dell’invisibile. Il teatro è assoluto come il tempo bruciante e disperato come il tempo fuggente. Il cinema è la manifestazione estrema della scrittura: ferma, per sempre, le immagini, come il microsolco la musica e la voce. Difficile ma non troppo realizzare un film da un’opera teatrale, poiché il regista scrive una sceneggiatura, anche come Branagh che rispetta sempre i versi del testo, non solo nel magistrale, Molto rumore per nulla, o come fa Batz Luhrman in Romeo and Juliet, i versi rispettati, ma la vicenda della faida delle due famiglie trasferita in una torbida e mafiosa città americana. O Hamlet di Tony Richardson, con un’Ofelia tragicamente autovaticinante, una giovanissima e aristocratica Marianne Faithfull attrice emergente, altolocata e colta, prossima all’unione con Mick Jagger negli anni più convulsi, che la portarono al tunnel di alcol e droga, da cui uscirà vent’anni dopo, dicendo «Io sono stata Ofelia».  Realizzare un film che sia teatro da uno spettacolo teatrale è difficilissimo: modello mirabile La tempesta di Shakespeare realizzata da Strehler, dove Ariel-Lazzarini, Miranda -Fabiana Udelio, Prospero-Carraro vivono come in un film e pulsano come quando vidi la prima in teatro. A questo mirabile spettacolo fa riferimento il grande Branagh, in una scena di solitudine del Racconto d’invernoquando un giovane personaggio rievoca la tempesta a cui ha assistito, anticipando lo sgomento e la pena che per la tempesta proverà Miranda sull’isola, con il padre Prospero, la luce assoluta e chiarazzurra evoca quella di Strehler. Mentre la storia misteriosa del re di Sicilia che impazzisce di gelosia senza ragione, creando disperazione e dolore irredimibili, vede momenti altissimi in una scena particolarmente tragica, quando una dama prende la figlia appena nata dal re impazzito e dall’innocente moglie Ermione: venti minuti di buio caravaggesco, a Londra e qui sullo schermo, parole recitate scandite irraggiungibilmente come dall’inferno.  Particolare non secondario: il terribile monologo è della suprema Judy Dench, che nei dialoghi quasi intimidisce lo stesso Branagh- Leonte, un po’ perché così credo sia accaduto, un po’ perché così, teatralmente, incombe sull’uomo folle, crudele, cieco, come l’ombra di una scura colpa e giustizia che verranno. La magnifica edizione di Branagh di Racconto d’inverno per la prima volta mi ha fatto capire questo dramma che dopo tante letture, tanti spettacoli, tanti studi, mi sfuggiva nella sua essenza: la gratuità folle del male, e come recita e scrive all’inizio il regista, la domanda se sia possibile il perdono, quando risulta impossibile. «Racconto cosmologico », lo definisce Bonnefoy, il più grande interprete non teatrale di Shakespeare nel nostro tempo. Grazie a Branagh, al regista per il cinema Beniamin Caron, a un gruppo di attori insuperabili, la potenza recitativa svela un mistero della storia: Leonte è all’improvviso pazzo, urla forsennatamente; Ermione, la moglie, innocente, è immediatamente schiantata, annichilita dalla follia e dal male. Un’altra delle grandi vittime, delle donne immolate nel teatro di Shakespeare.