Agorà

Musica. Jazz al femminile, il piano è Serio

Andrea Pedrinelli domenica 3 dicembre 2017

La giovane pianista Elisabetta Serio (foto di Carlo Arace)

Splendida quarantenne, Elisabetta Serio è uno dei più validi talenti del jazz italiano recente. Cresciuta al conservatorio, la pianista-compositrice che vive tra Roma e Napoli ha testato tutti o quasi i colori della musica prima di incidere album, April del 2013 e il recente Sedici: e ha lavorato o studiato con Rita Marcotulli, Barry Harris e Fulvio Sigurtà ma anche condiviso il palco con Pino Daniele, Enzo Gragnaniello, Z-Star, Gianluca Grignani, Noa o il compianto Andrea Parodi, esibendosi in festival e concerti fra Italia ed estero. Per Rita Marcotulli, nume tutelare del nostro piano jazz, la Serio possiede «sensibilità, personalità, determinazione, poesia ed eleganza», nonché la decisiva capacità di esprimersi senza travestimenti. E ascoltando Sedici, edito dalla meritevole etichetta Via Veneto Jazz, fra i pochi approdi seri per la bella musica nostrana, non si può che dar ragione alla Marcotulli. Con pianismo fascinoso, composizioni di struttura solida e la capacità di variare piglio del tocco e sviluppi della scrittura, Sedici allinea l’eleganza sognante di Little lies, la mossa e spiazzante Rumors, l’inquietudine colta di Brad, il mood gentile che sfiora il bop de Il cielo sotto di me e la luminosa, a tratti magnifica, Freedom. Col piano della Serio a interagire con tromba (Sigurtà), sax ( Jerry Popolo) e in un brano pure con la voce di Sarah Jane Morris: oltre che con la ritmica del suo trio, Marco de Tilla contrabbasso e Leonardo de Lorenzo batteria. E lei, Elisabetta Serio, è un fiume in piena quando parla di jazz tanto quanto sa misurarsi intelligentemente nel suonarlo; solo quando le chiediamo cosa significhi per lei cent’anni dopo la stessa parola “jazz”, risponde con un lungo silenzio. Poi la sua voce sorride e dice «gioia»: ma del resto la sua musica soprattutto questo, comunica.

La sua poetica è una frase di Herbie Hancock: «È impossibile provare ciò che è sconosciuto »: ovvero?

«Ogni volta che Hancock va sul palco si pone come in casa, inizia a cercare note senza prosopopee perché non si può capire l’ignoto, si deve agire. Ovvero guardare e ascoltare come bambini, concentrarsi per note che siano giuste e nel rispetto di chi ascolta».

La formazione classica quanto incide nel suo jazz?

«Dà forma e tecnica. Il conservatorio bisogna scordarlo quando massifica o si chiude al nuovo, ma un percorso di quel tipo fa imparare moltissimo».

Quali sono i jazzisti cui sente di guardare di più?

«Per la parte ritmica, ciò che più m’intriga, Elvin Jones, Steve Gadd e Trilok Gurtu; per le melodie Wayne Shorter e soprattutto Brad Mehldau: ma le direi anche i Beatles… Come pianisti le cito Bill Evans, Keith Jarrett, Petrucciani e i loro Conversation with myself, The Köln Concert, Trio in Tokyo ».

Ma non c’è troppo pianoforte solo in giro, oggi?

«Molto ci è imposto, pure pianisti che si spacciano per jazzisti e non lo sono. Bisognerebbe contasse l’onestà del porsi, senza millantare: aiuterebbe i giovani a conoscere e orientarsi. Il piano solo poi è difficile, ci vuole un costrutto solido alle spalle: però apertura e trasversalità non sono male, anzi».

Lei che obiettivi pone al suo pianismo jazz?

«Il futuro nasce dal presente, quindi l’unico mio obiettivo è studiare. E continuare a cercare».

Ma collaborare con artisti pop le è servito davvero?

«È un’esperienza formativa. Per l’importanza di certi palchi e per l’assenza di banalità in artisti come Pino Daniele, che mi dava molta libertà».

Secondo lei esiste un jazz scritto “al femminile”?

«Ho fatto la tesi sulle donne nel jazz, ma mi piace pensare che la musica non sia un fatto di generi, bensì mettersi a disposizione dell’arte. Però poi se ascolto Shorter sento che è Shorter, e quando sento Carla Bley che adoro per la sua meravigliosa follia colgo che è lei e non altri, quindi… Sì, esiste un jazz pensato e suonato “al femminile”».

In Sedici dedica un brano alle radici nere del jazz, Afrika: si sentono ancora nel jazz di oggi?

«Sì, ma più da noi che siamo ancora legati ai pattern della New York anni Trenta che non in America… Però la base da tramandare per la ritmica resta quella».

Che cosa significa per lei improvvisare?

«Libertà di esprimere in un momento irripetibile un’idea precisa, vedendo se si riesce a svilupparla e portarla con sé: ma ci si arriva solo studiando ogni giorno sullo strumento, è una libertà con rigore».

È stata dura sfondare essendo donna e italiana?

«Beh, ai festival mi portavano i fiori dicendo “sei carina”… Devi metterci più polpa per convincere, se sei donna. Oggi sfrutto la femminilità dopo averla negata a lungo: ma per il jazz ho dovuto sacrificare l’idea di una famiglia, imparando prima in ambienti protetti come il conservatorio e poi sulla strada, andando da sola a sentire i concerti dei grandi».

Ora quali dischi jazz insegnerebbe, in una scuola?

«Kind of blue di Miles Davis, Nocturne di Charlie Haden e Highway rider di Mehldau. Ma anche album di italiani, da Stefano Bollani a Paolo Fresu».