Agorà

Letteratura. Segre, maestro di rigore

Pietro Gibellini martedì 18 marzo 2014
Con Cesare Segre scompare l’ulti­mo maestro degno di tal nome nell’umanistica letteraria: perdi­ta particolarmente grave nei no­stri tempi, in cui nelle università potere e prestigio sono sempre più divaricati, e l’accademia è pi­lotata da baronetti di mediocre livello scienti­fico e ancora più basso di condotta. Due paro­le per definire il suo stile intellettuale? Sconfi­namento e rigore. Sconfinamento geografico, per il carattere europeo della disciplina che pro­fessò, la filologia romanza, e per il respiro in­ternazionale dell’intellettualità ebraica cui ap­parteneva e in cui si formò con maestri come Santorre Debenedetti e Benvenuto Terracini. Sconfinamento anche di genere, perché le sue ricerche non rimasero imbrigliate in singole di­scipline e metodi: attraversò e anzi combinò filologia romanza, italianistica, ispanistica, sti­listica, strutturalismo, semiologia, teoria del­la letteratura... Era, insomma, un uomo del­l’universitas e non della «poliversità», dello spezzettamento angusto e specialistico dei sa­peri. Quanto al rigore lo dimostrò con la sua condotta in ambito universitario, negli inter­venti militanti sul «Corriere della sera» e nei suoi studi.La sua bibliografia è impressionante: basti ri­cordare le edizioni critiche dell’Orlando furio­so, con cui offrì un modello pionieristico della filologia d’autore, e della  Chanson de Roland, con cui indicò una nuova rotta conciliando La­chmann con Bédier, e dimostrando che dalla scuola italiana poteva veniva l’edizione e­semplare di un capolavoro francese ed euro­peo (dovrebbe rifletterci chi oggi si accoda pas­sivamente anche in campo italianistico alla dominante prospettiva americana).Chi ha avuto la fortuna di essere stato suo al­lievo a Pavia ne è rimasto segnato. Segre era a­nagraficamente il più giovane e il più precoce nella carriera, del tris d’assi con cui, insieme a Corti e Isella, fece di quell’ateneo la punta di un rinnovamento metodologico che ha lasciato un forte segno nella nostra cultura. Già prima dei Metodi attuali della critica  (1970), saggio nato dal sodalizio con Maria Corti, aveva aperto la via con l’Inchiesta sullo strutturalismo (1963) con il quale portò in Italia Roman Jakobson (i suoi interlocutori privilegiati si sarebbero poi chiamati Bachtin e Lotman). Per i tre condi­rettori di «Strumenti critici» (1963) l’allievo di uno era allievo degli altri, con una concordia che durò per molti anni, prima che le loro vie si divaricassero: mentre Isella restava più lega­to al magistero filologico continiano e Corti as­secondava crescenti interessi teorici e creativi, Segre seguiva e in parte determinava gli svi­luppi internazionali della semiotica, salvo ri­chiamare l’urgenza di una Semiotica filologica (1979), a freno delle derive tuttologiche, e de­nunciare la perdita di sicure bussole critiche (Notizie dalla crisi, 1993). Segre non aveva nul­la del docente sedut­tore, nulla del comu­nicatore brillante, anche perché il rigo­re  e certa timidezza lo mettevano fuori dal­la schiera degli affa­bulatori a effetto. Conquistava gli allie­vi con la sua elegan­za intellettuale, frut­to di un razionalismo cristallino condito con tocchi di ironia: un esprit de finesse sciolto dentro l’esprit de géometrie del suo dire e del suo scrivere. Quando divampò il Sessantotto, dialogò con gli studenti cer­cando l’ardua conciliazione tra esigenze de­mocratiche e salvaguardia della qualità degli studi. Fermo nei princìpi e delicato verso gli altri, a­veva un forte senso dell’amicizia: le riunioni in casa sua e della moglie Marisa Meneghetti per la rivista «Diverse Lin­gue », con il sognante Franco Loi e il maudit Amedeo Giacomini, ne erano un segno tangibile. La riserva­tezza dell’uomo e il prestigio dello studio­so potevano imbaraz­zare chi lo incontrava, ma bastava frequen­tarlo per essere affa­scinati dall’ironia con cui condiva la conver­sazione. «Resteremo nel futuro coi nostri studi?», gli chiedeva una collega sognatrice; e lui: «Certamente, in qual­che nota a piè di pagina». Non è un caso che i suoi studi abbiano investito maestri dell’umo­rismo e dell’ironia, come Boccaccio, Ariosto, Cervantes, Gadda, Calvino. Ironia voltairiana? Ripenso a una pagina toccante della sua auto­biografia: adolescente, rimase a lungo chiuso in una soffitta dove un religioso l’aveva nasco­sto per metterlo al riparo dalle persecuzioni razziali, sul finire della guerra. Lì, per inganna­re il tempo il clandestino lesse tutto Voltaire, anche se avrebbe preferito «Topolino». Sta for­se qui la lontana radice del suo razionalismo sorridente e disincantato.La sua era una visione immanentistica, laica, quella per cui interpretò le rappresentazioni letterarie della follia e dell’oltremondo come proiezioni dell’aldiquà (Fuori del mondo, 1990). Visione amara, anche: quella per cui scrisse di non aver voluto figli. Ma disincanto o scettici­smo non hanno comportato abdicazione: il Se­gre impegnato degli ultimi anni ricupera una vocazione latente nel giovanile  Lingua stile so­cietà  (I963), l’idea che lo studio delle forme ac­quista senso collegandosi ai valori civili. Il tra­gitto dagli studi giovanili su Ludovico Ariosto a quelli senili su Primo Levi ha una sua implicita eloquenza.