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SCENARI. Secolo asiatico o grande bluff?

Diego Motta martedì 20 agosto 2013
«Chi conosce le cose non fa previsioni, chi fa previsioni non co­nosce le cose». Chissà cosa direb­be oggi Lao Tsu, poeta cinese vis­suto nel VI secolo a.C. e autore di queste parole, davanti alla stermi­nata mole di dati, ricerche e anali­si, tutte univoche e concordanti nell’affermare la grande avanzata del continente asiatico. Non c’è campo in cui scrittori, economisti e politologi non si esercitino nel decretare virtù e vizi della terra de­stinata a soppiantare l’egemonia del vecchio Occidente. Ma è dav­vero così? Nelle scorse settimane, un volume edito da Luiss Univer­sity Press, intitolato L’Europa e l’I­talia nel secolo asiatico, a cura del Centro studi di Confindustria (pa­gine 208, euro 18,00), ha messo in luce qual è la portata della sfida a cui andremo incontro. Partiamo dalla ricerca e dalla produzione culturale: il Giappone ha superato Stati Uniti e Ue per numero di bre­vetti e, assieme a Corea del Sud e Svezia, è il primo Paese al mondo a investire in innovazione rispetto al Pil. Se si guarda al campo delle pubblicazioni scientifiche, nel pe­riodo che va dal 1995 al 2009 la Ci­na è salita da un misero 1,6% al 9,5% mentre i due colossi atlantici scendevano dal 70% al 58%. A Tokyo e Seul più della metà dei giovani ha una laurea, contro il 20% del­­l’Italia e, in materie co­me la matematica, le performance di univer­sità come quelle di Shanghai, Hong Kong e Macao sono le migliori al mondo. Il confronto non riguarda ovviamen­te solo la produzione di conoscenza, ma la stessa creazio­ne di ricchezza: mentre in questo primo decennio del ventunesimo secolo ci siamo a lungo affannati a discutere sul “sorpasso” cinese ai danni degli Usa, avremmo dovuto pensare che nel 2050 il Pil di Pe­chino “doppierà” quello degli Sta­tes (29,5% la quota mondiale con­tro il 16,3%) mentre l’India supe­rerà l’intera Europa (17,2% contro 13%). Sarà dunque un’irresistibile ascesa, speculare a un inevitabile declino? Non è affatto detto, se ciò vorrà dire sviluppo tumultuoso senza i giusti contrappesi sociali.Un esempio? In campo ambienta­le, la Cina già batte tutti per emis­sioni di CO2 da combustibile e, se si considera l’indice di sviluppo u­mano elaborato dall’Onu (che ri­flette i livelli di Pil pro capite, istru­zione e speranza di vita), India e Cina sono fanalini di coda, assie­me ai Paesi africani. «Che sia ini­ziato il secolo asiatico è tutto da vedere – osserva Giulio Sapelli, or­dinario di Storia economica all’U­niversità degli Studi di Milano –. In realtà siamo di fronte a un conti­nente che non ha ancora suffi­cienti basi culturali per sostenere uno sviluppo economico impe­tuoso. Non c’è una religione unifi­cante come lo è il cristianesimo in Europa, solo morali religiose a mio parere incapaci di garantire un rapporto virtuoso tra crescita e umanesimo, etica ed affari. Per questo, penso sia più probabile un nuovo secolo nordamericano in Asia, anche a partire dalla pro­spettiva assai prossima dell’indi­pendenza energetica degli Usa».La presenza delle grandi major nei territori dell’Asia minore e del Me­dio Oriente, dove da tempo si con­cepiscono progetti infrastrutturali ambiziosi, dimostra l’intenzione statunitense di tenere a bada la crescita del gigante orientale e, se a ciò aggiungiamo la scommessa giocata in casa sullo shale gas, il nuovo metano dall’alto potenziale che piace alle compagnie a stelle e strisce, si capisce chiaramente perché Washington non intenda abdicare facilmente alla sua lea­dership. Quel che è certo è che fi­nora la “pace fredda” siglata da Barack Obama prima con Hu Jin­tao e adesso con Xi Jinping verrà messa alla prova dai nuovi equili­bri di forza che si creeranno sul terreno economico. La Casa Bian­ca ne è ovviamente consapevole, per questo nel novembre 2011 ha siglato una partnership con otto Paesi dell’area del Pacifico: l’obiet­tivo è garantirsi un ruolo strategi­co in una zona dove si concentra il 44% del commercio mondiale e viene prodotto il 55% della ric­chezza. «C’è una convenienza re­ciproca a mantenere rapporti di collaborazione, anche militare, tra Pechino e Washington» fa notare Giuliano Noci , docente del Poli­tecnico e ricercatore all’Università di Shanghai. Il più grande conti­nente del mondo deve in realtà accelerare sui percorsi di forma­zione universitaria e sull’innesto di nuove professionalità nel siste­ma delle imprese. «Settori come le telecomunicazioni vedono già a­ziende asiatiche in prima fila nella competizione mondiale e, se si pensa all’arretratezza attuale del sistema sanitario, in comparti co­me quello farmaceutico il mercato potenziale è enorme» continua Noci. La variegata mappa dello sviluppo comprende situazioni re­gionali diverse: si va dal Giappone che vuole uscire dal ventennio della depressione e si affida alle cure choc del premier Shinzo Abe, all’India che potrebbe superare la Cina per Pil pro-capite nei prossi­mi anni, fino alle ex Tigri che si muovono oggi con maggior razio­nalità rispetto al recente passato.«Non sono più i Paesi del capitali­smo autoritario – sintetizza Sapelli – ma democrazie in fase di lento rodaggio che puntano sulla diffu­sione della conoscenza verso mas­se operaie ormai qualificate». È il caso di Singapore e ancor di più della Corea del Sud o di Stati come il Vietnam e l’Indonesia, «che oggi sono come la Cina quindici anni fa» spiega Noci. In realtà, nella po­larizzazione dei grandi flussi del­l’economia internazionale, quel che colpisce è la debolezza strut­turale dell’Occidente, in particola­re dell’Europa. In attesa di capire se il nuovo ordine internazionale cambierà garante, è forse il tra­monto del Vecchio continente il primo effetto duraturo della meta­morfosi geopolitica originata dalla Grande Crisi.