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Modernità. Anno 1900: quando Vienna sognava l'arte totale

Alessandro Beltrami venerdì 29 gennaio 2021

Koloman Moser, Tessuto Orakelblume, 1901, tessuto operato a fondo raso. Seta, cotone, lamina metallica dorata

Può apparire paradossale, ma la grandezza di un momento storico si misura sul suo fallimento. Raramente chi cerca di trasformare una “rivoluzione” estetica in una realtà diffusa raggiunge il suo obiettivo nel tempo storico in cui agisce: nell’immediato le ambizioni e gli sforzi si scontrano contro l’inerzia del corpo sociale. Eppure quanto più è forte la violenza della caduta tanto più l’onda d’urto e i frammenti dispersi, trasformandosi in mito, riescono a generare frutti duraturi nel tempo. Vale anche per la Vienna a cavallo tra XIX e XX secolo, dove una battagliera minoranza di artisti e intellettuali getta i semi di una delle più importanti "versioni" della modernità.

È la Vienna di Otto Wagner, Hoffmann, Loos, Mahler, Richard Strauss, Schönberg, Kraus, Wedekind, Schnitzler, Musil, Klimt, Schiele, Kokoschka, Wittgenstein, Freud... È quella di Herzl, il padre del sionismo politico (gli ebrei a Vienna a inizio Novecento costituivano un decimo della popolazione ma una parte abbondante dell’élite culturale ed economica), ma è anche quella di Francesco Giuseppe e di una aristocrazia che più di altrove resiste all’assalto della borghesia. La città è la ricca capitale di un impero multiculturale ormai in fibrillazione, nella quale le spinte innovative sono ampiamente compensate da un tradizionalismo formale: entrambi destinati a eternarsi nella mitologia in seguito alla rovinosa caduta e alla volatilizzazione di un territorio insieme geografico e culturale.

A questo trauma è legata la storia di Gorizia (che con la “gemella” Nova Gorica sarà Capitale europea della cultura 2025), città asburgica per eccellenza. Da alcuni anni i musei della città hanno avviato un percorso percorso dedicato alle arti viennesi tra Otto e Novecento (tra l’altro con la valorizzazione Josef Maria Auchentaller, artista della Secessione che scelse di vivere a Grado), e che ora prosegue con “ Vienna 1900. Grafica e design”: una mostra che attende di tornare visitabile nelle sale di Palazzo Attems Petzenstein (nel frattempo è stata prorogata al 28 aprile) ma che intanto può essere esplorata attraverso il magnifico catalogo (Antiga Edizioni), il cui progetto grafico di Polystudio e la cura tipografica fanno onore al tema trattato.

Alfred Roller, manifesto per la XVI mostra della Secessione, 1903 - Erpac FVG

Libri, manifesti, arredo, oggetti d’uso, la moda: l’ambizione di figure come Kolo Moser e Josef Hoffmann – che nel 1903 fondano la Wiener Werkstätte (traducibile con "Officina viennese") – e di un nutrito gruppo di compagni meno noti ma che il progetto porta alla luce, era investire la vita tutta di una rivoluzione estetica la cui parola d’ordine era Gesamtkunstwerk, l’“opera d’arte totale” su cui converge ogni disciplina.

Si trattava di fornire una nuova “identità visuale” alla quotidianità di un’alta borghesia austriaca forse ignara dell’imminente tracollo dell’Impero ma certamente conscia delle trasformazioni sociali in corso e animata da un’autentica fame culturale. Geometrie e mondo organico coabitano e confluiscono nell’etichetta dello Jugendstil e nella cosiddetta Flächenkunst, l’“arte piatta” che rivela l’influenza dall’arte giapponese. Soluzioni e soprattutto spirito sono “modernisti”, a partire dalla volontà di coniugare funzionalità e semplicità nell’unità offerta dalla forma, e dal legare progettazione e produzione (anche se su scala ancora artigianale).

La rivista “Ver Sacrum” (ossia primavera sacra), fondata nel gennaio 1898 da Gustav Klimt e Max Kurzweil come organo ufficiale della Secessione viennese, è il manifesto (insieme alla sede del movimento, progettata da Joseph Olbrich) di questo progetto in cui prende corpo, come scrive in catalogo Raffaella Sgubin, il “sogno di una vita bella”: «Una bellezza non classica, perché gli artisti vogliono creare uno stile nuovo, capace di esprimere la complessità dell’anima moderna. È la prima volta che l’artigianato viene elevato al rango di arte, con la finalità di impregnare di bellezza la vita, anche quella quotidiana».

Else Unger, Progetto per stoffa, 1900 - Erpac FVG

La stessa “ Ver Sacrum” si configura come opera d’arte totale, modello sistematico di novità editoriale e 'habitat' per l’espressione artistica. Nei sei intensi anni di vita verranno pubblicati 471 disegni originali, 55 litografie e calcografie originali e 216 xilografie originali, a firma di artisti come gli stessi Klimt, Moser e Olbrich, ma anche Schiele, Wagner, Auchentaler.

Questa primavera si sarebbe però troncata ben prima dell’inverno delle tempeste di fango e acciaio della Grande Guerra. La Secessione non è il Bauhaus: la scelta dell’artigianato non è quella dell’industria, il collettivo non è sinonimo di pluralità, la sua anima è aristocratica come una forma diversa di aristocrazia è la ricchissima e colta borghesia a cui si rivolge. La secca dove si incaglia questa rivoluzione sarà proprio il pubblico, destinato a restare minoritario nella stessa élite. A partire proprio dal 1905, ultimo anno di “Ver Sacrum”, il Gesamtkunstwerk si fessura per andare poi in pezzi. Ma i suoi frammenti sono diventati l’alfabeto del Novecento.