Agorà

SCIENZA. Se ci ricordassimo di dimenticare

Andrea Lavazza e Silvia Inglese lunedì 18 febbraio 2013
​Fare tardi al lavoro, varcare in piena notte il portone e scoprire che la lampada dell’ingresso vasto e silenzioso non s’accende. Un primo tuffo al cuore. Appena scattata la serratura alle nostre spalle, sentire una mano che ci afferra al collo. Una voce troppo vicina, un odore sgradevole e una punta che preme nella schiena. L’urlo che si strozza in gola e l’inizio di un incubo che dura pochi, interminabili minuti.A chi ci soccorre non serve raccontare nulla, ma alla poliziotta, al magistrato, agli amici, ai parenti bisogna ripetere tutto, o almeno qualcosa che giustifichi il nostro stato fisico e psicologico. Inventarsi una storia non è più facile di allontanare il pensiero di quella sera. E il tempo non sempre è un medico premuroso ed efficace.Quando improvvisamente si spegne la luce, quando una serratura automatica emette il suo consueto e attutito clangore, quando una voce si fa involontariamente sussurro ravvicinato, quando qualcuno ci preme senza malizia nella calca di un autobus, il film di quei minuti riparte invariabilmente: cresce l’ansia, il respiro viene a mancare, gli occhi si chiudono, una sensazione di morte ci assale, non si può fare nulla per tentare di fuggire. E stare chiusi in una stanza protetta non aiuta, nel momento in cui si scopre che siamo al riparo dai malintenzionati, ma non da quel ricordo orribile, invasivo e paralizzante.La memoria di quella sera ci sembrerà più odiosa delle maledizioni, forse peggiore dell’evento stesso, perché lo perpetua e lo carica di risonanze emotive sempre più laceranti, proprio quando vorremmo lasciarcelo alle spalle, ricominciare a vivere proiettati nel futuro e non incatenati a un frammento sfortunato del nostro passato.Eppure, c’è chi frammenti di esistenza, quali che siano, li vorrebbe fermare, infilzare con uno spillo quasi fossero farfalle o congelare come reperti preziosi, per poterli rivedere e condividere. In fondo, sono la nostra vita. Ma quelle istantanee o quei fili di volti, fatti, sensazioni spariscono inesorabilmente, precipitati in un buco nero dal quale nessuna forza può più estrarli. Sono distrutti? Sigillati? Irrecuperabili per qualche bizzarro e tragico scherzo della natura? Se lo chiedono tristemente i malati di Alzheimer (...).Dimenticare qualcosa può essere uno straordinario lenimento per tanti dolori e, tuttavia, lo stemperarsi dei ricordi, più o meno rapido, legato all’invecchiamento oppure a degenerazioni cerebrali, e sentito come una ferita personale e sociale tanto più difficile da sopportare quanto più erode la nostra identità e le nostre relazioni con le altre persone. (...) Ricordare o dimenticare, allora? Un quesito mal posto, è evidente. Improponibile e assurdo se rivolto in generale. Da secoli gli esseri umani, e tutti i giorni ciascuno di noi, sembrano in lotta contro l’oblio: ricordare tutto quello che dovremmo è sempre apparso, e probabilmente è, un’impresa superiore alle nostre capacità. La dimenticanza sopraggiunge spontanea e non voluta: ci può fare perdere tempo quando non ricordiamo dove abbiamo lasciato le chiavi di casa; può condannare a un’esistenza di rimorso chi ha scordato il figlio in auto sotto il sole. La nostra costituzione media in termini di capacità di apprendimento e conservazione dell’informazione è stata plasmata nel tempo sulla base di ambienti ed esigenze diversi da quelli attuali, cosicché natura e cultura oggi non solo sono intrecciate e interagiscono, ma a volte risultano in conflitto.Ogni situazione, personale o collettiva, legata alla memoria interna o esterna, chiede risposte differenti. Trattenere frammenti del passato e stato oggetto di tecniche personali fino agli albori dell’età moderna, poi campo del crescente strumentario atto a depositare i ricordi su supporti più o meno facilmente consultabili e trasportabili: dalla scrittura ai registratori vocali, dalla fotografia agli smartphone multimediali. "Dimenticare" ciò che è accaduto sta forse diventando, invece, più difficile e costoso a livello pubblico, mentre per i singoli individui l’arduo equilibrio tra nuovi dati in entrata ed eliminazione di vecchie tracce, inutili o dannose, è da millenni legato alle nostre fragili e preziose capacita umane, impasto inestricabile di biologia e di apprendimento riflessivo. Se inventare un modo per procurarsi, da soli e a comando, un oblio volontario si rivela impresa estremamente ardua, il sogno o l’incubo di potere agire dall’esterno sulla nostra memoria per rimuoverne tutti o parte dei suoi contenuti e presente almeno a partire dagli avventurosi approdi di Ulisse narrati nell’Odissea e nella mitologia greca degli inferi, dove il fiume Lete dava ai trapassati la dimenticanza delle loro esistenze terrene. (...)Soltanto pochi anni fa (2004) un film poetico e profondo come Eternal sunshine of the spotless mind (in italiano, Se mi lasci ti cancello) ha riattualizzato nell’immaginario collettivo la possibilità, grazie a una tecnica fantascientifica, di eradicare dai propri pensieri l’ex innamorata o l’ex innamorato insieme alle vicende vissute insieme. Ciò è avvenuto proprio nello stesso periodo in cui nei laboratori si sono cominciate a sperimentare sui roditori molecole capaci di attenuare o fare scomparire i ricordi di eventi che scatenano paura. Le stesse molecole contenute in farmaci che, quando tempestivamente somministrati, si sono dimostrati efficaci nello stemperare le memorie negative anche in soggetti umani. Tanto che si è pensato di prescriverne uno in particolare, il propranololo, alle vittime di incidenti stradali perché non sviluppino sindromi da stress post-traumatico.Sebbene si stiano moltiplicando studi neuroscientifici e farmacologici mirati a una "cancellazione" selettiva dei ricordi sgradevoli, e bene precisare subito, con la massima chiarezza, che nessun vero farmaco dell’oblio e oggi disponibile ne, probabilmente, lo sarà nei prossimi anni. Immense appaiono ancora le difficoltà pratiche per tale obiettivo. Ciò che attualmente sembra raggiungibile è un intervento, funzionale alla cura del trauma, sulle componenti emozionali delle memorie associative.Speranze e timori debbono quindi essere commisurati alla reale situazione dei laboratori, al di là degli annunci, a volte sensazionalistici. Una frontiera, tuttavia, e stata aperta. E si tratta di una frontiera importante. Lo testimonia il fitto dibattito filosofico, bioetico e anche "politico", che i primi risultati sperimentali raggiunti hanno suscitato. Manipolare i ricordi come si fa per il montaggio di un film apre scenari tanto innovativi quanto potenzialmente disturbanti. Se il primo, e lodevole, obiettivo per cui si lavora è quello di restituire un’esistenza più serena ai tanti che sperimentano, per pura sorte avversa, dolori e sofferenze, altre potenziali applicazioni appaiono più controverse. Non è la memoria la condizione della nostra identità personale? Rimuovere a piacimento quello che non sopportiamo più del nostro passato – sempre ammesso che diventi possibile – non finirà con il renderci individui più felici, ma anche meno saggi? Con un ridotto fardello sulle spalle, ma con ridotta coscienza morale? Vi è, poi, un dovere del ricordo per testimoni di eventi particolari, delitti o genocidi? Quali sono, se esistono, i limiti all’autonomia di scelta personale e di ricerca scientifica? Lo Stato deve avere qualche ruolo di regolazione?Sono soltanto alcuni dei quesiti, i più immediati e i più radicali, che sorgono all’idea di una pillola dell’oblio. Molti altri se ne possono aggiungere e spesso la giusta via del domandare è più proficua di risposte affrettate e banali.