Agorà

La polemica. La scuola ridotta a circo della competizione

Angélique Del Rey giovedì 30 agosto 2018

Robin Williams in una scena del film «L’attimo fuggente» di Peter Weir (1989)

Quando si è insegnanti, si vede spesso la competizione come un valore positivo. In sala professori si sente regolarmente questa lamentela: «Quando non ci sono voti in vista, gli allievi non studiano più». È un fatto: gli allievi prendono molto sul serio l’attribuzione di voti ai loro lavori e al loro rendimento scolastico, e tendono a identificare le loro capacità con i voti ricevuti in questa o quella materia. Inoltre si confrontano fra loro attraverso il voto, traendone ora un motivo di orgoglio, ora un motivo di vergogna o un certo disprezzo di sé stessi. E’ vero anche che la maggior parte studia “per il voto”, cioè in uno spirito di competizione con gli altri, e a certuni basta un voto basso per demotivarsi e perdere ogni speranza di cavarsela in un modo o nell’altro in quella competizione. Si può certo deplorare questa interiorizzazione dello spirito competitivo nelle aule scolastiche, ma non va ignorato che per parte loro gli allievi ne sono ben poco responsabili. Si tratta di qualcosa che gli è stato insegnato insieme alla matematica e al francese.

In effetti, è la scuola stessa, quando attribuisce un ruolo centrale alla valutazione, che va considerata responsabile di tale spirito competitivo, come anche dei suoi effetti deleteri: narcisismo o disprezzo di sé, desiderio di farcela in barba agli altri, atteggiamento strumentale verso lo studio, perdita di un rapporto oggettivo con il sapere, perdita del senso della comunità e dell’aiuto reciproco... Tuttavia, qualche anno fa le autorità competenti hanno fatto arrivare agli insegnanti un certo messaggio: «Bisogna smettere di dare voti!». Il voto – si sentiva dire sempre più spesso dagli ispettori e dagli altri formatori degli insegnanti – stigmatizza e ingenera il disgusto per lo studio. Ma soprattutto, è completamente privo di efficacia nel far riuscire l’allievo. Di fatto, nel 2008, quando ho deciso di scrivere il mio primo libro sulla valutazione in ambito scolastico, A l’école des compétences, la “valutazione per competenze” era già in voga da qualche tempo nell’ambiente della gestione dell’istruzione. Il discorso dominante a quell’epoca era il seguente: se vogliamo valutare l’efficacia reale dell’insegnamento (nonché operare confronti a livello internazionale), occorre mirare le competenze acquisite grazie all’insegnamento stesso, in altre parole il “saper fare” realmente acquisito dagli allievi, e non i saperi normati da questo o quel sistema scolastico regionale.

Ed effettivamente, poco importa il voto buono o cattivo preso per un compito di matematica o una tesina di storia o di filosofia, se poi quel voto non riesce a valutare le acquisizioni reali per la «riuscita di un 15enne nella vita», tanto per riprendere la formula-chiave utilizzata dall’OCSE nel suo programma SeDesCo, che ha dato luogo al noto sistema di valutazione PISA. In apparenza, dunque, nella “cultura del- la valutazione” scolastica è in atto un cambiamento virtuoso a livello non soltanto nazionale – in Francia o in Italia –, ma anche internazionale. Sta uscendo di scena il tipo di valutazione che stigmatizza e ingenera uno spirito competitivo deleterio! Purtroppo si tratta soltanto di un’apparenza. In realtà, queste nuove valutazioni non fanno altro che rafforzare lo spirito competitivo e incoraggiare gli allievi a identificarsi con le valutazioni che ricevono.

Come sappiamo, la valutazione non è nata ieri. Ha fatto la sua comparsa con le prime istituzioni scolastiche delle società moderne, e a quel tempo ha svolto una funzione essenziale nella formazione di società in cui i valori dell’uguaglianza e della libertà hanno assunto un ruolo centrale. Invece nelle società dell’Ancien Régime, le posizioni e i ruoli sociali dipendevano dalla nascita: per occupare un rango sociale elevato occorreva essere “figli di”, cioè bennati. Poi, con lo sviluppo delle società moderne, si è affermata l’idea che gli individui sono tutti uguali per nascita, e la questione della distribuzione degli onori e delle funzioni nella società stessa è passata a dipendere dalla valutazione delle capacità formate da sistemi scolastici ancora da costruire. Il nuovo motto è diventato: «A ciascuno secondo il suo merito». Torniamo ai nuovi sistemi di valutazione. Il loro problema di fondo è che pretendono di non essere istituzioni, bensì di valutare la persona come essere. Quando di un alunno o di un dipendente d’impresa (in occasione di un “bilancio delle competenze”) si dice che manca di questo o quel “saper essere” (“desiderio di imparare”, “rispetto di ogni differenza”, oppure “leadership”, “sicurezza di sé” ecc.), non si stanno giudicando le sue produzioni, bensì il suo essere (carattere, affinità elettive ecc.).

Ma c’è di peggio: si suppone che potrebbe imparare a essere diverso, come se in fondo non fosse che un insieme di competenze acquisite, privo di un’identità propria. In realtà, quindi, dietro la naturalizzazione della valutazione si cela la negazione delle differenze concrete che fondano le nostre identità: la negazione del nostro essere in quanto tale. Questa naturalizzazione dei nuovi sistemi di valutazione, contrariamente a quello che si dice, incoraggia il valutato a identificarsi con le valutazioni che riceve: di qui i fenomeni di abbandono scolastico o di suicidio dei dipendenti d’impresa, l’incessante ricerca di riconoscimento sui social media ecc. Effettivamente, quando il sistema di valutazione si presenta come un’istituzione in sé, è sempre possibile dirsi: «Ho fallito (come allievo, come dipendente ecc.), ma la valutazione non ha me come oggetto».

Quando invece il sistema pretende di valutare l’essere della persona, quale può essere l’esito? «Se ricevo una valutazione negativa è perché sono una nullità». Il neoliberismo, diceva Michel Foucault in uno dei suoi ultimi corsi al Collège de France, intitolato Nascita della biopolitica, è l’impresa diventata valore di tutte le cose, con la sua logica di investimento e di ritorno sull’investimento. È la vita individuale vista come impresa, è l’amicizia o l’amore visto come impresa, è il tempo libero visto come impresa, è l’apprendimento o lo studio visti come imprese... Tutte queste cose saranno ormai considerate alla stregua di forme di investimento, con un ritorno atteso e quindi, com’è logico, con una valutazione del rapporto investimento/profitto. Una valutazione della performance. In tal modo, per tornare all’ambito scolastico, l’alunno giungerà gradualmente a considerare la sua intelligenza come un capitale (“capitale cognitivo”) in cui investire prendendo lezioni, e al tempo stesso si aspetterà un “ritorno sull’investimento” in termini di occupazione. Ormai si dà per scontato il fatto di essere valutati, cioè essere desiderabili (e non soltanto a scuola, ma ovunque: al lavoro, in famiglia, fra amici ecc.). '«Sono valutato, ergo sum ». Tuttavia queste valutazioni sono assolutamente paradossali: in nome del riconoscimento del merito, negano il vero merito e generano un clima deleterio di concorrenza in cui ciascuno pensa solo a farcela in barba agli altri.