Agorà

Scaparro. Cultura europea. Sogno infranto

Angela Calvini sabato 15 novembre 2014
Con Strehler eravamo convinti che l’Unione Europea si sarebbe fatta nel nome della cultura. Non pensavamo che sottotraccia stesse nascendo l’Europa delle banche. L’Europa della cultura oggi non c’è più». È disincantato Maurizio Scaparro, regista abituato a successi importanti in Francia e Spagna, e che nel 1983 venne chiamato da Giorgio Strehler a Parigi per contribuire alla nascita dell’Unione dei Teatri d’Europa, associazione culturale voluta dall’allora ministro della cultura francese Jack Lang. Disincantato, ma non rassegnato, Scaparro che, subito dopo il debutto milanese del suo Aspettando Godot è volato a Parigi per il progetto Les liaisons heureuses che fino all’8 dicembre proporrà scambi teatrali tra Francia e Italia, puntando soprattutto sui giovani. Tra i punti più qualificanti del progetto, oltre a rappresentazioni teatrali e a una mostra sui “garibaldini” di Visconti, vi è il restauro della sala-palestra del Liceo Italiano “Leoardo Da Vinci” di Parigi, per restituirla alla sua originale destinazione di Sala-spettacolo al servizio degli studenti del Liceo e della comunità italiana di Parigi. La sala verrà inaugurata lunedì 17 novembre, mentre il 18 ospiterà un recital sui racconti in francese ritrovati di Goldoni. Maestro, i suoi legami con la Francia sono ancora molto forti.«Da tre anni curo le attività internazionali del Teatro della Pergola di Firenze, che con Les liaisons heureuses (I legami felici), in omaggio al semestre di Presidenza italiana dell’Unione Europea, vuole rinsaldare i legami che storicamente ci sono fra Italia e Francia Basti pensare a Goldoni morto a Parigi scrivendo le Mémoires  in francese sino all’emigrazione intellettuale dall’Italia verso la Francia, penso a Strehler, Rossellini e anche a me. Qui ho fatto il Théâtre des Italiens , il mio Cyrano con Pino Micol è considerato un classico, nel 2000 ho fatto debuttare in scena a Parigi Claudia Cardinale ne La Venexiana. Sarebbe bello trovare un modo nuovo di rapportarci all’Europa, non considerandola semplicemente una serie di staterelli».Un tentativo che aveva fatto insieme a Strehler attraverso il Théâtre d’Europe. Cosa è rimasto?«Allora ’era un grande fermento culturale unitario. Io rimasi con lui a Parigi solo due anni, poi andai a dirigere il Teatro di Roma per 7 anni. Il Novecento lo abbiamo superato, e abbiamo dimenticato troppe cose. Ora appare solo un’Europa di poveretti perché non ricordiamo agli altri quello che siamo. La nostra immagine è da rivalutare, possiamo farcela». Anche se il direttore del Piccolo Teatro Sergio Escobar ha appena denunciato che nel sistema teatrale italiano «si sta sgretolando tutto»? «Tutto dipende dal rimbalzo dei finanziamenti tra stato e enti locali, di cosa potranno fare gli enti locali nei confronti dei teatro ora che di soldi non ce ne sono più. Il problema è un cambiamento di politica in generale. Anche in Europa, noi saremmo i migliori e siamo il fanalino di coda».Ma da cosa si può ripartire?«Dobbiamo trovare quegli slanci che hanno fatto nascere il Piccolo di Milano, non solo di norme ministeriali. Abbiamo bisogno di uomini che si impegnino, di sale che ci siano, di pubblico da ricostruire. La grande scommessa sono i giovani. I nuovi linguaggi della comunicazione non possono non toccare il teatro. Non dobbiamo spaventarci degli iPad e dei tweet, il pensiero è sempre più veloce, l’uomo è ancora al centro. Bisogna continuare a parlare con i giovani e  fargli scoprire l’importanza della parola». Il teatro italiano è ancora capace di rinnovarsi e di trovare nuovi linguaggi?«Guardi, mi rinfranca pensare che il teatro italiano è rappresentato all’estero più di quanto pensiamo. Se resterò a Firenze, vorrei fare un piccolo festival con 5 o 6 spettacoli di autori italiani prodotti in Europa. Per capire come ci vedono oggi dall’esterno».Intanto lei porta in scena l’irlandese Beckett.«E vorrei portare il nostro Godot in Europa. È un’interrogazione metafisica fortissima, dal punto di vista non rinunciatario. Non ha nessun rapporto con l’assurdo, anzi. Ho volutamente accentuato l’attesa della trascendenza».