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Festival. Sanremo, il rap illuminato dell'apocalittico Anastasio

Angela Calvini domenica 2 febbraio 2020

Il cantante Anastasio

«Le parole sono le mie sole armi» grida Anastasio dando voce straziata alle inquietudini dei ventenni di oggi, che vorrebbero incanalare la loro energia in qualcosa di eccezionale, disinnescati invece da una società omologante. È una metafora sulla creatività e non una canzone sul terrorismo come farebbe pensare il testo, Rosso di rabbia, brano di forte impatto tra rap e rock-blues che il giovanissimo Anastasio porterà in gara fra i Campioni del Festival di Sanremo, dal 4 febbraio. Tenete d’occhio questo 22enne rapper anomalo e cantautore, Marco Anastasio da Meta di Sorrento, vincitore nel 2018 di X Factor, che a suon di rime originali ha dimostrato di essere ben altro che un prodotto da talent. Ragazzo di buona famiglia (discende da una dinastia di avvocati civilisti) con la grinta del rapper di periferia, scavezzacollo da ragazzino e secchione al liceo classico, Anastasio lancia a Sanremo il suo primo album ufficiale, Atto Zero dal 7 febbraio (Sony Music Italy) cui seguirà un tour a partire dal 12 marzo. E spariglia le carte in un album contemporaneo dove cita Battisti chitarra e voce, racconta la gioventù di provincia, trasforma in rap il rogo di Notre-Dame e mette in scena una tragedia familiare ne Il fattaccio del Vicolo del Moro, liberamente ispirato all’opera Er fattaccio del 1911 del poeta Amerigo Giuliani. Sino a ispirarsi all’Apocalisse di Giovanni nella evocativa Quando tutto questo finirà. Come se non bastasse, nella serata omaggio ai 70 anni del Festival Anastasio rapperà su Spalle al muro di Renato Zero accompagnato nientemeno che dalla Pfm.

Anastasio, lei è un artista atipico, tanto che alcuni rapper non la considerano davvero uno di loro.

Ho voluto fare un album variegato, che avesse dentro più sonorità possibili, che spaziassero dall’acustico al rap più elettronico. Il mio primo ascolto da ragazzino era Caparezza: la sua maniera di incastrare le rime è incredibile e il suo modo di scrivere canzoni sempre con un tema cerco di metterlo in pratica anche io. Poi Mondo Marcio e il grande Fabrizio De Andrè: lui è stato il modello di scrittura più alto che ho avuto. Me lo hanno fatto conoscere i miei zii e da ragazzino mi sono “spolpato” la sua discografia, anche se non capivo ancora tutto.

Dal cantautorato al rap, qual è stato il passo?

Il mio primo approccio col rap arriva per uno sfogo verso la ragazzina che mi aveva fatto soffrire, avevo 15 anni. Io sono una persona chiusa e riservata e il rap è stato una valvola di sfogo importante. Poi cominciai a scrivere qualche rima per un amico: ci presi gusto finché pubblicai il mio primo Ep col nome di Nasta.

Lei ha mostrato una vena letteraria nella commovente versione musicale di “Rosso malpelo” di Verga, mentre ora rilegge “Er fattaccio”.

Al liceo classico ho fatto il pieno di letteratura. I primi anni non studiavo, ero un ragazzino spensierato che andava in giro col suo gruppo in cerca di adrenalina a combinare guai. Finito il ginnasio, arrivarono al liceo dei professori meravigliosi e appassionati. Sono stato fortunatissimo: mi misi a studiare davvero tanto storia, filosofia, letteratura e prendevo ottimi voti.

Cosa racconta la sua criptica “Rosso di rabbia”?

Il protagonista è un personaggio metaforico che io chiamo “il sabotatore”. Simboleggia uno spirito che ti porta ad abbandonare te stesso nel momento di massima tensione: quella che prova il terrorista che sta per premere il pulsante o il tuffatore che si lancia da una scogliera alta 15 metri (è il mio record) o l’ispirazione che invasa l’artista quando scrive una canzone. Occorre davvero abbandonarsi per creare, senza calcoli, altrimenti si fallisce.

Il linguaggio dei rapper però è nel mirino per i contenuti sessisti di un vecchio brano di Junior Cally (alias Antonio Signore), in gara al Festival.

Antonio lo conosco, è una persona tranquilla e innocua. Se c’è un problema al Festival è a monte, non è da processare un artista che può piacere o meno. Lui “interpreta” la parte di uno psicopatico, ma nel rap non è mica l’unico.

Appunto. Dato che la violenza sulle donne oggi è un tema scottante e doloroso, non le pare che un certo linguaggio maschilista del rap sia ormai sorpassato?

Certo, ne sono convinto, cantare solo di sesso e soldi attraverso immagini esasperate ha stufato. Non troverete il sessismo nelle mie canzoni, non è una cosa che mi appartiene. In un brano dell’album, Il sabotatore, uso la carta vetrata, ma è un accenno. Sono convinto che gran parte del rap si debba rinnovare. Quando sono arrivati i trapper, con le solite tematiche banali, pensavo fossero ironici. Invece si prendono sul serio. Comunque i ragazzini non sono stupidi, hanno il senso critico per sapere che si tratta solo di esagerazioni. Io dico però che non è artistico, non ti arricchisce. Ci vorrebbero un linguaggio più originale e più ricerca.

In quanto a ricerca, in un brano lei addirittura si interroga sulla fine dei tempi.

Quando tutto questo finirà è davvero un pezzo apocalittico. L’anno scorso sono stato invitato a un dibattito su arte, musica e fede a Lucca dal cardinale Gianfranco Ravasi, una persona che quando parla non puoi che pendere dalle sue labbra, un pozzo di cultura. Spiegava, seguendo i testi sacri, che quando l’Apocalisse sarà avvenuta ci saranno 10 minuti di silenzio. Questa immagine potente mi ha incollato alla sedia e ho pensato subito di scriverci qualcosa. Mi affascina il linguaggio biblico, così forte e solenne.

Solo una questione estetica?

Tutt’altro. «Quando tutto questo finirà / nessuno si ricorderà il mio nome». Il mio è un invito all’umiltà: lascia stare la truffa della tua identità, le tue velleità, perché prima o poi verrà l’Apocalisse e verremo tutti giudicati come uguali. Che tu creda o no. Ma è anche peggio se tu non credi all’Aldilà perché dietro ti lasci il nulla.

Allora in lei c’è un interesse spirituale?

Io sono stato fino ai vent’anni un ateo un po’ borioso. Come scrive Heinrich Böll in Opinioni di un clown, che è il mio libro preferito, «gli atei annoiano perché parlano sempre di Dio». A un certo punto mi sono fatto un bagno di umiltà, ascoltando chi ne sa più di me e che mi mostrava che c’è una prospettiva cristiana interessante. Spiritualmente io non ho trovato Dio, non mi definisco cristiano, non dico le preghiere, non vado a messa. Ma ci sono molte cose della cristianità che mi piacciono, a partire dalla promessa della salvezza, il fatto che verrà l’Apocalisse e dopo si rinascerà. Credo che l’uomo abbia bisogno di fede. «Se l’uomo rifiuta Dio, si inginocchia davanti ad un idolo» scriveva Dostoevskij. Le idolatrie di oggi sono il denaro e venerare se stessi: tutti gli idoli sono falsi e le tue energie le butti su qualcosa di inutile. La fede, invece, è la cosa più alta davanti alla quale ti puoi inginocchiare.