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Patristica. San Gerolamo e l'incompiuto “Commento a Geremia” tra storia e profezia

Alessandro Capone mercoledì 8 dicembre 2021

Caravaggio, “San Gerolamo scrivente”. Roma, Galleria Borghese

Alla fine del 414 o agli inizi del 415, Gerolamo, ormai molto anziano, intraprende l’ultima grande impresa esegetica, che, a causa della morte (419), rimarrà incompleta: il Commento a Geremia, di recente tradotto per la prima volta in italiano e commentato da Giuseppe Caruso per Città Nuova (pagine 530, euro 80).

Sono anni difficili per il monaco di Betlemme, per i cristiani e più in generale per il mondo tardoantico. Nel 410, il sacco di Roma a opera di Alarico aveva fatto crollare un’altra certezza del mondo antico, l’invulnerabilità della città eterna, e tanti profughi erano giunti anche in Palestina, in cerca di rifugio e pace, impegnando Gerolamo e i suoi confratelli nell’accoglienza.

In questo sommovimento generale si inserisce anche l’intervento di Gerolamo in una delle più impegnative polemiche della cristianità antica, suscitata in quegli anni dal bretone Pelagio, il quale, facendo leva sulle possibilità naturali di fare bene dell’uomo e sulla sua forza di volontà, predicava una vita asceticamente impegnata e la libera iniziativa da parte dell’uomo, capace di garantirgli la salvezza, pur in qualche modo sostenuta dalla grazia divina. Né si trattava solo di polemiche teologiche, ininfluenti sulla vita concreta, perché un gruppo di facinorosi, forse solidali con Pelagio e legati al vescovo di Gerusalemme, aveva assaltato il monastero di Gerolamo, provocando la fuga di monaci e monache, la morte di un diacono e mettendo a rischio anche la vita dello stesso Gerolamo.

Tutto ciò scoraggiò non poco l’anziano monaco di Betlemme, che non riuscì a completare l’ultimo grande lavoro esegetico. Per stanchezza o forse per l’assenza di un sistematico modello origeniano, come osserva Caruso, Gerolamo in questo commento appare quanto mai legato a un’esegesi di carattere letterale, denunciando talvolta le distorsioni allegorizzanti di Origene. Forse, però, non si può escludere che alla base di questo atteggiamento ci fosse un motivo legato all’accusa che gli era mossa proprio dai pelagiani di essere un pedissequo imitatore di Origene.

Ma, al di là dei pur importanti aspetti esegetici, è possibile cogliere in alcuni passaggi l’immedesimazione di Gerolamo nel profeta, perseguitato dai re, dai principi, dai sacerdoti e dal popolo di Giuda, che per Gerolamo sono i vescovi, i presbiteri, i diaconi e il popolo che si solleva contro un uomo santo, il quale è invitato a non avere paura, perché li vincerà con l’aiuto del Signore.

Altrove l’identificazione con Geremia e la critica nei confronti delle gerarchie ecclesiastiche è ancora più esplicita: tutto ciò che è stato annunciato alla casa reale di Giuda deve essere riferito come rimprovero a quanti nella Chiesa svolgono ruoli di responsabilità e si sono dati alla superbia, alla ricchezza e alla lascivia.

Gerolamo predilige qui una lettura morale e anche ecclesiale, che gli consente di assumere un ruolo profetico, libero dai vincoli con le gerarchie, con cui per altro aveva avuto spesso un approccio critico, e pronto a combattere anche gli eretici, come i seguaci di Pelagio, sostenitori della possibilità di raggiungere la perfezione con le proprie forze già sulla terra, mentre per Gerolamo la vita è una lunga via che conduce fuori dall’Egitto e attraverso i deserti porta al luogo in cui sarà possibile fermarsi.

Il Commento a Geremia, dunque, scritto da Gerolamo, come dice egli stesso, con mano da stenografo, ma senza tralasciare alcun significato, viene presentato come l’ordito, la trama e i licci del telaio: al destinatario di allora, al lettore di oggi il compito di poterne fare una veste bellissima, ascoltando in profondità il messaggio del profeta, la spiegazione discreta del commentatore e insegnando poi anche ad altri quanto si apprende. Un testo stimolante, che lascia trasparire la personalità dell’esegeta e le inquietudini del tempo e che ancora oggi suscita curiosità e interesse.