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Architettura. Salvare Venezia con le chiese abbandonate?

Leonardo Servadio sabato 2 febbraio 2019

Didier Descouens, Wikimedia Commons

Chiese chiuse: «Ma aprivamo un portone e subito qualcuno si avvicinava, gettava uno sguardo, e subito riaffioravano i ricordi ». Sara Marini, docente di composizione architettonica all’Università Iuav di Venezia, ha portato avanti nel corso di quattro anni un progetto di studio sulle chiese della città lagunare la cui porta è rimasta sbarrata: sono trenta e sono inutilizzate o sottoutilizzate. La ricerca, compiuta dalla Marini insieme con i suoi studenti e alcuni collaboratori, è stata lunga, tra l’altro perché non è semplice accedere a questi luoghi. «Mi occupavo dei capannoni abbandonati: sono presenze diffuse nelle pianure del Veneto, e indagavo sulle possibilità di riutilizzarli. Ma abito e insegno a Venezia, e anche in città ci sono tanti edifici abbandonati. Chiesi al Comune che me ne indicassero qualcuno su cui svolgere esercitazioni nell’ambito dei miei corsi. Mi indicarono la chiesa di Sant’Anna, ai fini cultuali già non attiva da molto tempo. L’argomento consiste nello studiare come inserire il nuovo nell’esistente, in tal modo facendo, per così dire, “rivivere” le architetture. Certo è molto diverso occuparsi di capannoni industriali piuttosto che di chiese, per quanto non più officiate: nei primi i muri di solito sono di qualità scarsa, nelle seconde invece sono solidi, importanti, monumentali. Cominciammo a esplorare questi edifici, che di solito sono di notevole rilevanza nel tessuto urbano. Il tema si è rilevato appassionante».

Ma non facile...

Approssimativamente un 40 percento delle chiese veneziane è ora di pertinenza del Comune, una simile percentuale è di pertinenza della Diocesi, e le altre sono di proprietà diverse. Sono molto differenti anche le condizioni di conservazione. Abbiamo avuto accesso soltanto a dodici delle trenta chiese dismesse: in diciotto non abbiamo potuto metter piede».

Non ve n’è qualcuna già restaurata?

Come no! Esemplare per esempio è il caso di San Lorenzo. Quando abbiamo cominciato la nostra indagine era in abbandono, ora è in corso il restauro che ne farà un importante spazio espositivo. È, in un certo senso, un paradosso: era tra gli edifici in condizioni peggiori, e si è investito molto per la sua ristrutturazione. Ve ne sono altre, di ex chiese, in condizioni molto migliori che però restano dimenticate. Certo a Venezia non mancano gli spazi espositivi, e proprio quel tipo di destinazione d’uso sembra tra le più consone per le chiese non più officiate.

Non pensa ad altri utilizzi possibili per le chiese storiche chiuse?

Abbiamo l’esempio della chiesa dei Santi Cosma e Damiano, sull’isola della Giudecca, che già anni fa è stata ristrutturata e adibita in parte a incubatore di imprese. Poi le imprese che qui hanno mosso i primi passi sono cresciute e si sono spostate altrove: ora la parte dedicata a incubatore è vuota. Perché non usarla per offrire ai giovani spazi adatti per avviarsi all’esercizio della professione? Dai tanti corsi universitari attivi a Venezia escono ogni anno moltissimi neolaureati che devono entrare nel mondo del lavoro. Potrebbero trovare qui un posto adatto: gli spazi sono già idonei e vi sono tutti gli impianti necessari. Se potessero essere offerti a prezzi calmierati, magari Venezia conquisterebbe qualche nuovo cittadino, invece di perderne in continuazione: è noto che il continuo afflusso di turisti ha portato alle stelle il costo degli affitti in città, e ridotto drasticamente il numero dei residenti. Dal momento che sono già moltissimi gli ambienti espositivi – tanto da emarginare sempre di più gli spazi riservati al vivere quotidiano – si potrebbero trovare nuovi luoghi atti al lavoro. Anche il lavoro è cultura.

Nell’ambito della ricerca compiuta avete sviluppato concreti progetti?

Abbiamo studiato diverse ipotesi. Ci siamo riferiti per esempio all’esperienza compiuta da Renzo Piano con l’Arca, la struttura atta a comporre uno spazio musicale, elaborata per l’esecuzione del Prometeo di Luigi Nono: smontabile e amovibile. Nel corso della nostra ricerca gli studenti hanno partecipato a laboratori volti a disegnare architetture rimovibili, affrontando tutte le difficoltà del caso: impossibilità di realizzare nuove fondazioni nell’esistente, collocazione degli impianti, linguaggio architettonico tale da non confondersi col monumento in cui ci si inserisce... per quanto siano pensate come strutture temporanee o comunque amovibili, devono anch’esse avere dignità e caratteristiche ben definite.

Che cosa ha ricavato da questa esperienza?

È stato un bel viaggio alla riscoperta della città di Venezia. Ha messo gli studenti di fronte a problemi di grande portata: già l’edificio chiesa è molto complesso, e studiare nuovi inserimenti al suo interno significa affrontare molteplici difficoltà, sia sul piano normativo, sia su quello architettonico. Un’esperienza istruttiva, che andrebbe generalizzata. So che altre scuole di architettura si interessano al tema. L’Italia è ricca di particolarità: per dire, il panorama veneziano è ben diverso da quello milanese o da quello ligure. Sarebbe importante poter confrontare percorsi simili compiuti in contesti differenti, magari anche a livello europeo, non solo nazionale.

E sul piano umano?

Le architetture sono sempre occasione di incontri. E quando una porta chiusa si apre, subito nasce interesse. Siamo stati avvicinati da tanti, veneziani e turisti, mentre compivamo i nostri sopralluoghi. Ricordo in particolare alcune persone di una certa età che si sono rivolte a noi mentre stavamo studiando Sant’Anna: «Qui siamo tutti anziani e non abbiamo un posto dove incontrarci e stare assieme, perché non proponete di trovare anche spazi adatti a noi, in questa chiesa storica?». Sono parole che dicono molto della condizione in cui si trova Venezia: dei suoi problemi, ma anche dei desideri e delle speranze che la attraversano.