Agorà

Anniversario. Salce, 100 anni di un maestro dimenticato

Massimiliano Castellani venerdì 23 settembre 2022

L’attore e regista Luciano Salce (1922-1989) in una foto del 1966

Rari quegli artisti che sono riusciti a fondere in un’unica materia la propria vita con la loro creatività. Luciano Salce apparteneva a quella razza rara di uomini per tutte le arti e in tutte le stagioni. E in tempi di rigurgiti totalitari, come quelli che stiamo vivendo, forse per spiegare a un millennial cosa sia stato realmente il fascismo basterebbe mostrargli due film esemplari: La grande guerra (1959) di Mario Monicelli e Il federale (1961), appunto diretto dal funambolico Salce. Quest’ultima pellicola, che segna anche il debutto di Ennio Morricone come compositore di musiche da film, è una delle tante intuizioni geniali di un attore e regista istrionico, a torto troppo poco ricordato. Luciano Salce è stato uno degli eroi di celluloide della “classe di ferro del ’22”, come gli amici fraterni Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi e Adolfo Celi. Salce era nato cento anni fa, il 25 settembre 1922, a Roma, da padre bergamasco e madre pesarese che perse la vita a 22 anni mentre lo dava alla luce. A 13 anni, il giovane Luciano divenne L’uomo dalla bocca storta, titolo del bel docufilm che gli ha dedicato il suo unico figlio, anche d’arte, Emanuele Salce. Quel segno particolare che lo rese inconfondibile, «la bocca storta, ce l’aveva per via di un incidente d’auto, mentre veniva riaccompagnato in collegio. Alla guida c’era mio nonno, un padre duro che lo aveva “rifiutato”: lo riteneva responsabile della morte della madre... La gran botta sul cruscotto di ferro gli costò un’operazione delicata con l’innesto di una mandibola d’oro che poi perse in maniera violentissima... gliela scipparono i nazisti», aveva raccontato di recente ad Avvenire Emanuele.

Lo “scippo” avvenne allo Stalag, il lager dove venivano internati i prigionieri di guerra, e i suoi aguzzini vedendo quel bene prezioso che portava in bocca glielo strapparono via brutalmente. «Un grande dolore fisico e una ferita morale sempre aperta – continua il racconto di Emanuele –. Nel suo diario, ovunque fitto di appunti, alle pagine dedicate agli anni 1943-’45, papà annotava scarno: “Due anni difficili”. Stop. Quel periodo poi lo ha elaborato cinematograficamente girando Il federale in cui come ruolo si assegnò quello del gerarca nazista». Da qui anche l’etichetta scomoda appiccatagli dalla sempre attivissima pubblica ottusità: «Salce il fascista», anzi il «repubblichino». Una panzanata, pari al titolo del Male quando nel ’79 titolò in prima pagina “Arrestato Ugo Tognazzi. È il capo delle BR”. «Mio padre è stato un uomo libero, un artista completo e anche un aspirante poeta. Tenne un carteggio con Eugenio Montale che puntualmente gli rispondeva... – sorride Emanuele – stroncando le sue poesie», questo il ritratto fedele di Luciano Salce che suo figlio da anni porta anche in scena in teatro con l’apprezzatissimo spettacolo Mumble Mumble. Ovvero confessioni di un orfano d’arte. Doppia orfanezza di Emanuele (quella del padre naturale e di Vittorio Gassman, suo padre adottivo che aveva sposato Diletta D’Andrea, l’ex moglie di Luciano Salce) che quest’anno a Messina per il suo spettacolo ha ricevuto il “Premio Adolfo Celi” (oltre al Premio Flaiano per Diario di un inadeguato).

Salce con il compagno d’Accademia d’arte drammatica Adolfo Celi aveva debuttato sul grande schermo nel 1945 in Un americano in vacanza di Luigi Zampa. Quattro anni dopo, i due volarono in Brasile dove Salce viene ricordato anche come regista di due film: Uma Pulga na Balança (1953) e il drammatico Floradas na Serra (1954), unica prova cinematografica della diva teatrale Cacilda Becker. In Brasile Adolfo Celi invece è ancora celebrato come un “rivoluzionario” della nuova avanguardia teatrale di San Paolo, e Salce ne è stato il degno socio di imprese fino a quando i “Gobbi” nel ’53 non lo richiamarono in patria. La compagnia dei Gobbi, in cui era entrato al posto di Alberto Bonucci, era composta dai futuri coniugi, il bravissimo Vittorio Caprioli e l’immensa Franca Valeri, con i quali Salce aveva ottenuto strabilianti consensi a Parigi con Carnet de notes n. 1. Primordiali sitcom da un minuto portate in scena in un piccolo teatro del Quartiere Latino dove in platea assistevano divertiti il vecchio poeta Paul Claudel e l’immaginifico drammaturgo Jean Cocteau. Con Salce, i Gobbi si ricomposero anche alla radio e in teatro, scrivendo a sei mani la commedia L’arcisopolo. Ma nei primi anni ’60 emerge il talento del cineasta che cala il tris magico sul grande schermo: Il federale con Ugo Tognazzi , La voglia matta (1962) in cui al fianco di Tognazzi lancia la giovanissima Catherine Spaak e Le ore dell’amore (1963), in cui recita con Ugo anche Diletta D’Andrea.

Sulle ali del successo popolare, Salce azzarda con il film-tv El Greco, ma il biopic del pittore non funziona. Che il suo talento di affabulatore potesse funzionare sul piccolo schermo lo intuì però l’amico regista Antonello Falqui, che lo volle per lo show del sabato sera della Rai, Studio Uno. Ultima edizione televisiva quella del ’66, è il preludio al “caso Salce” per il film Colpo di Stato con cui nel ’69 inaugura il genere della “fantapolitica”. Ma l’indignazione e la censura della classe dirigente del Paese fu trasversale: il film rimase solo due giorni nelle sale e poi cadde nell’oblio, diventando da allora oggetto di culto per appassionati delle tante, smarrite, “pellicole maledette”. Poteva essere l’inizio della fine, ma Salce senza vendersi mai l’anima, fedele solo al suo istinto di uomo di spettacolo e alla sua straordinaria ironia, in quello stesso anno si riprese tutto con gli interessi dirigendo Alberto Sordi in Il prof. dott. Guido Tersilli primario della clinica Villa Celeste convenzionata con le mutue che al botteghino incassò ben 3 miliardi di vecchie lire. Una fortuna. Il suo volto nazionalpopolare tornò in video con successo a Senza rete e alla radio con Formula Uno. La sua ultima creatura al cinema sarà invece Paolo Villaggio, che dirige (nel ’74) in Alla mia cara mamma nel giorno del suo compleanno e poi terrà a battesimo i primi due capitoli memorabili della saga villaggesca firmando la regia diFantozzi (1975) e Il secondo tragico Fantozzi (1976).

Il primo Fantozzi uscì nelle sale lo stesso anno dell’esilarante commedia L’anatra all’arancia in cui Salce dirige la splendida coppia Tognazzi-Monica Vitti. Infaticabile, continuava a tenere aperto anche il microfono di Radio Rai conducendo fino all’85 la trasmissione cult Black Out, scritta con la triade dei fantasisti Italo Terzoli, Enrico Vaime e Guido Sacerdote. Il meglio dell’umorismo italico, una famiglia di cui si sentiva parte integrante. Per questo, prima che calasse il sipario, rese omaggio al pater familias Ennio Flaiano curando la regia de La conversazione continuamente interrotta, protagonista Giorgio Albertazzi, un ex ragazzo del ’23. Il salace mastro Salce se ne è andato per sempre nel 1989, un anno prima di Ugo Tognazzi, e il suo ultimo guizzo fu la consacrazione dell’irresistibile vis comica di Lino Banfi con Vieni avanti cretino!. Un’altra cascata di miliardi (oltre 3) al botteghino, a conferma dell’amore di quel pubblico di allora che Salce, con il ghigno storto, ringraziava alla maniera del “suo” dottor Tomas: «La sua soddisfazione è il nostro miglior premio».