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L'intervista. Rustici: «Io sono musica»

Andrea Pedrinelli martedì 4 ottobre 2016
Corrado Rustici, napoletano, è uno dei grandi produttori del nostro Paese: per la precisione, uno dei pochi che sappia aiutare un artista a osare per provare a crescere, creando attorno alla sua opera un mondo sonoro al tempo stesso contemporaneo, che rimanga vicino all’intimo dell’artista e sia però anche figlio di un tocco che è solo di Rustici stesso, un tocco fra rock e pop, ruvidezze e sperimentazioni, tradizione e futuro, riconoscibile e però mai invadente. “Figli” di Rustici, dagli anni Settanta di stanza in America, sono fra gli altri il primo “vero” Zucchero (quello della svolta di Blue’s), Elisa, i Negramaro: questi ultimi, in particolare, dal suono originalissimo per le nostre sponde, e nato col produttore partenopeo. Il quale poi ha anche lavorato con Ligabue e Renga, Premiata Forneria Marconi e Cristiano De André, Giusy Ferreri e Noemi, e poi rinnovato – spiazzando con successo – certi stereotipi di artisti di prim’ordine come Francesco De Gregori (nel tiratissimo, quasi violento Prendere e lasciare) e Claudio Baglioni (col futurista ed elettronico Viaggiatore sulla coda del tempo). Tale successo ormai non solo italiano del Rustici produttore, nasce però anche dalle tante conoscenze acquisite sul campo dal Rustici musicista, chitarrista rock progressive e rock fusion, che nel tempo si sono unite alle sue riflessioni teoriche sulla necessità di trovare nuove strade alla musica d’oggi. E sono proprio il chitarrista e il pensatore insieme, a riportare oggi alla ribalta Corrado Rustici come artista, oltre che ovviamente produttore di se stesso. In un bel disco strumentale di sola chitarra elettrica (tutti i suoni vi sono ottenuti con essa) lavorato ben sei anni, intitolato Ahame proponente un viaggio, composto di tributi a vari generi e una suite moderna, nelle potenzialità di uno strumento spesso banalizzato. Poi Aham, quasi naturalmente, diviene occasione anche per una chiacchierata sul senso del far musica nel 2016, sul perché e come si dovrebbe aiutare un artista, producendolo, a valorizzarsi: se non a crescere. Con la gemma della risposta di Rustici alla seguente domanda: «Oggi si di- ce “prodotto” un disco che ha un bel suono, è giusto sia soltanto così?». La risposta, secca e quasi urlata, è stata: «No!». Ahamin sanscrito significa “Io sono”: in che senso? «Nel senso dell’esserci concretamente dell’uomo, che ama e vive a prescindere da ogni elucubrazione. Per me è l’unico contesto, il vivere concreto, in cui noi uomini davvero acquisiamo significato». Nel disco cerca “essenzialità”: ma nella musica che viaggia fra radio e web, ce n’è ancora?«Nella musica popolare si può trovare nella semplicità delle emozioni evocate in testi e musiche. Nel mio disco l’ho cercata in modo diverso, provando a distillare dalla chitarra un vocabolario musicale che trascendesse l’ovvio: ma se ci sono riuscito è perché ho trovato l’essenziale in me. Quando si trova il proprio senso, la musica filtra in modo naturale». È veramente così mal usata la chitarra nel pop-rock? «La tecnologia e il genio dei pionieri anni 60 le hanno dato peso rivoluzionario, ma dopo di loro è difficile trovare cose veramente nuove. La chitarra si usa in modo limitante, nel calderone della musica popolare: per adeguarsi alle visioni dell’industria. E da qui nasce un appiattimento cui ormai siamo abituati, tanto che diviene spesso un rifugio. Nella mia ricerca ho invece cercato, almeno per me, punti di partenza oltre il già sentito: sperando possano farmi superare i limiti della nostra musica postmoderna». Solo due testi, nel Cd: uno di speranza l’altro opposto. C’è spiritualità, e quale, nel suo percorso? «Speranza e certezza di una futura libertà dal dolore sono in chiunque: ognuno poi le chiama come crede, io le definisco “energia”. Nei testi ho espresso il dualismo del nostro sentire spesso ciò che ci circonda in termini di buono e cattivo o bello e brutto». Da produttore, come bisognerebbe lavorare a un disco? «Partendo dalle intenzioni. Le domande da farsi sono due, davanti al materiale grezzo: è arte? È rilevante? Da lì si sceglie su cosa lavorare di esso, creando poi una tavolozza sonora che rafforzi idee ed emozioni dell’autore. Non contano tanto i dettagli pratici dei progetti, ma che essi abbiano un perché». Come arrivò a squadernare De Gregori o Baglioni? «Semplicemente, cerco di spostare un po’ più in là gli orizzonti di cui un artista e il suo pubblico possono essere prigionieri… Credo che un artista debba sempre suggerire idee e visioni che gli altri non possono raggiungere, altrimenti è solo intrattenimento». Ma è diverso oggi fare il produttore rispetto all’87? «Tecnicamente no. Però oggi c’è la percezione che chiunque sia in grado di usare certi software possa essere qualificato per analizzare, correggere, comporre brani musicali. Il risultato è un evidente decadimento dei prodotti, e riguardo alla sua domanda il definire un disco “prodotto” solo perché ha un bel suono, senza anima o personalità, è inaccettabile». Ma lei, a posteriori, ritiene una fortuna aver lasciato l’Italia o pensa di aver perso qualcosa? «Credo che la mia fortuna sia stata esserci nato, dentro la tradizione italiana: e poi però allevato andando oltre, nel confronto con il mondo».