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CANZONI D'ESTATE / 3. Ruggeri: «Gli anni '80? Un lungo canto del cigno»

Andrea Pedrinelli lunedì 12 agosto 2013
Li chiamavano anni di plastica. Era il tempo di Paul Young e Sting, Peter Gabriel e U2, dell’esplosione di Springsteen. Ma anche di Iglesias e Cutugno, Rondò Veneziano e Christian, Spandau Ballet e Duran Duran, del dilagare dell’elettronica come del look. Che non generò solo Madonna, Michael Jackson, Prince o da noi Ramazzotti: forse fu l’inizio della perdita dell’idea di disco come opera d’arte. Malgrado Bob Marley e Stevie Wonder, Dalla e Battiato, Teresa De Sio e Pino Daniele. Erano gli anni Ottanta: quando un milanese poco più che ventenne debuttò da punk a Sanremo per poi divenire riconosciuto chansonnier in attesa di mostrarsi rocker. Quel ragazzo si chiamava Enrico Ruggeri, e gli anni ’80 li ha visti in prima linea.
Come definirebbe il decennio musicale 1980-1989?Controverso. Da un lato gli anni Settanta avevano lasciato segni forti, e le cose più interessanti nascevano da lì. Ultravox, Police, Elvis Costello, Joe Jackson… Dall’altro la discomusic diventava pop e prendeva il potere. C’era una meccanizzazione della canzone: intro brevi, i clic per il ritmo, lo stesso tempo dall’inizio alla fine. Danni alla creatività. Ma in quel decennio ci fu anche il Live Aid, la musica che sensibilizzava milioni di giovani.
Molti protagonisti di allora se ne sono già andati, da Mercury a Jackson a Marley…E John Lennon, forse la perdita più grave. Certo i Queen di allora erano un fenomeno mondiale.
Ci sono talenti dell’epoca che sottovalutammo?C’era gente che scriveva belle canzoni. Penso a Alberto Camerini o Sergio Caputo, intelligenti e divertenti, o a Garbo e Faust’O, profondi.
E poi c’era Ruggeri. A Sanremo con i Decibel, poi da chansonnier, poi da rocker… Lei ci va anche ora a Sanremo: quanto è cambiata quella storica vetrina?Allora c’era un’alchimia irripetibile. Era già un fenomeno televisivo, però in linea con il mercato: chi usciva da lì aveva successo. E pensi che Si può dare di più annullò la cassa integrazione della CGD. Dovette passare a doppi turni di produzione per far fronte alle richieste. Oggi non è così: chi vende non va in tv, chi vince i talent non lascia tracce…
Lei ha scritto per Fiorella Mannoia, Loredana Berté, Mina… Quanto ha perso la musica italiana quando gli autori hanno deciso di cantarsi le loro canzoni?È mancato il repertorio per tante voci. Ma anche i cantautori non hanno avuto il traino che io ebbi quando Loredana cantò Il mare d’inverno, per dire. Di allora mi manca il confronto tra canzone d’autore ed interpreti, che sfociò nell’evento Dalla-Morandi.
Lei quasi subito scrisse libri. Aveva capito prima di altri che la musica non bastava più, per vivere?Forse prima mancava solo curiosità. Pure io vendevo i dischi: ma la canzone mi andava stretta. E non fui il solo: i linguaggi cambiano, oggi i cantautori sono i rapper. Quando danno importanza al testo. I cantanti pop del 2000 non hanno testi, i rapper, esclusi quelli per i teenager e quelli volgari, sì.
Il rock di Vasco e il blues di Zucchero, esplosi in quel decennio, sono vero rock e vero blues?Gli italiani devono fare i conti con un mercato piccolo, e se vendono ancora di più: è dura restare puri. Lou Reed fa quello che vuole perché è di nicchia: sì, ma lo è in 150 Paesi!
Cosa resta musicalmente della disfida Duran/Spandau?Poco. Il pubblico delle ragazzine rinnega in fretta. Erano buone band, ma hanno pagato quella situazione.
Nelle hit di allora c’erano Iglesias, Cutugno, Al Bano e Romina… Vendevano, poi sono stati definiti trash, indi rivalutati… La verità qual è?Il livello iniziò ad abbassarsi. Io allora ascoltavo gli Yes e ridevo della disco. Oggi Barry White mi pare un gigante. La stessa Si può dare di più, del cui testo non ero convinto, ora sembra Schopenauer. A un certo punto si smise di avere pazienza: per Dalla ci vollero tanti album prima del successo, che però rimase. Oggi cercano quanto "funziona", ma non dura. Il De Andrè del 2018 temo abbia già cambiato lavoro.
Il passaggio da Lp a Cd ha aiutato il declino?Be’, c’erano pittori veri a firmare i dischi di Bowie o Stones. Se dimezzi la grandezza dimezzi anche il valore artistico del lavoro. Ma la rivoluzione digitale tolse umanità su più fronti: inseguendo la perfezione si perse l’attimo irripetibile dell’idea.
E intanto si passava dalle radio libere ai network…E la crisi iniziò proprio quando sparì il termine "radio libera". Prima c’erano ragazzi che portavano i dischi da casa, poi giunse una politica commerciale.
Alla fine, gli anni ’80 erano anni di plastica o no?Se ascolto gli anni ’70 le dico di sì. Ma se guardo ad oggi, in fondo non lo furono poi così tanto…​
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