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Festival di Berlino. Rosi: ecco l'olocausto dei migranti

Alessandra De Luca lunedì 15 febbraio 2016
​La ricerca dell’invisibile in un luogo al centro del clamore mediatico. Il racconto di una delle più grandi tragedie umane del nostro tempo senza dimenticare voci e sguardi sganciati dall’emergenza, dalla morte, dalle tensioni quotidianamente riferite dalla cronaca. Gianfranco Rosi, Leone d’Oro a Venezia nel 2013 con Sacro Gra, ci apre con Fuocoammare le porte di Lampedusa, confine reale e simbolico di due mondi in rotta di collisione, luogo di salvezza e speranza per centinaia di migliaia di migranti in fuga da guerra e fame. E porta in competizione al Festival di Berlino, nel cuore di un’Europa che erige muri e stende filo spinato, uno dei temi più urgenti degli ultimi mesi, scatenando lunghi applausi sia al termine della proiezione che in conferenza stampa. Il documentario (il titolo è quello di una canzone che parla di vecchie navi da guerra in fiamme sul mare), una coproduzione italo-francese, arriverà nelle nostre sale il 18 febbraio. Tutto è cominciato nell’autunno del 2014, durante un sopralluogo per verificare la possibilità di realizzare un cortometraggio commissionato dall’Istituto Luce allo scopo di offrire un’immagine dell’isola diversa da quella filtrata dai telegiornali. Una volta sul posto però Rosi si è scontrato con l’impossibilità di condensare in soli dieci minuti un universo assai complesso, e ha deciso di traslocare a Lampedusa per “attendere” la sua storia. «Come spesso accade nel cinema documentario – ci racconta il regista – è arrivato il caos, l’imprevisto. A causa di una bronchite durante i sopralluoghi ho incontrato il dottor Pietro Bartolo, che da quasi trent’anni assiste a ogni sbarco, visitando i migranti, facendo nascere bambini, constatando decessi. Senza neanche sapere chi fossi mi ha mostrato le immagini che testimoniavano la sua drammatica esperienza sul fronte dell’assistenza medica e umanitaria. Immagini inedite che mi hanno fatto quasi toccare con mano il senso della tragedia e che mi hanno spinto a raccontarla anche attraverso gli occhi degli isolani. Mi sono trasferito a Lampedusa nel dicembre del 2014. Nel gennaio del 2016, quando il film era già stato selezionato a Berlino, ho girato lo straziante monologo di Bartolo che riflette su quanto sia impossibile abituarsi alla morte, soprattutto quella dei bambini».Quando Rosi si è stabilito a Lampedusa, il centro di accoglienza era chiuso, per mesi non ci sono stati sbarchi. Cercava personaggi che restituissero l’identità dell’isola, gli sembrava importante cominciare dai bambini e ha trovato Samuele, uno straordinario ragazzino di dodici anni che ama la terra, ma deve vincere il mal di mare «facendosi lo stomaco» sul pontile galleggiante del porto vecchio. Poi sono arrivati Giuseppe Fragapane, dj di un’emittente locale, zia Maria che accudisce il marito e venera Padre Pio, Franco Paterna che si immerge per pescare ricci e patelle, Maria Costa, l’ottantenne nonna di Samuele, e Francesco Mannino, lupo di mare. «Ho capito che attraverso lo stato d’animo di Samuele potevo restituire quello di tutti noi. L’ansia che non lo fa respirare è la stessa nostra, il suo “occhio pigro” e quello del mondo intero di fronte a questo dramma. Il suo colpire con la fionda un esercito di pale di fichi d’India e poi cercare di rimettere le cose a posto con lo scotch riflette il nostro continuo distruggere e rattoppare».Nel frattempo il Centro ha riaperto i battenti, e Rosi ha ottenuto il permesso di girare. «Ma non è stato facile puntare la telecamera addosso alle persone, ho fatto pochissime riprese tra quelle mura, mi sembrava che il senso della loro sofferenza fosse reso al meglio nella scena in cui un migrante appena arrivato canta insieme ai suoi compagni di viaggio un gospel sulla loro odissea. Ho poi trascorso molto tempo a bordo della nave militare che effettua i salvataggi. Non succedeva mai niente, poi all’improvviso, la tragedia che vedete sullo schermo, la morte. Mi sono sentito però un testimone necessario, non un voyeur. Ho sentito il dovere di filmare quello che avevo davanti agli occhi, come chi si è trovato per la prima volta davanti ai forni crematori. Dopo l’Olocausto questa è la più grande tragedia europea».Rosi restituisce tutto l’orrore di una mattanza senza retorica, gratuite immagini scioccanti, toni enfatici da inchiesta giornalistica. Il regista ha tempi e modi tutti suoi per raccontare la realtà e forse il momento più terribile è proprio quello in cui la voce di un migrante attraverso una radio chiede disperatamente aiuto da una barca e poi tace per sempre. Quell’improvviso silenzio è più forte del lamento di chi agonizza, delle lacrime di sangue, del pianto delle donne. «In televisione e sui giornali la tragedia è raccontata per cifre e statistiche. A me interessano gli esseri umani, i loro occhi, i loro volti. L’assurdità di una morte che arriva a sette chilometri dalla costa mentre la politica sta a guardare senza trovare soluzioni che permettano di mettere fine a questa vergogna».